I risultati del campo sono il riflesso di quello che si fa o non si fa al di fuori del campo. Fin nei minimi dettagli
Al termine dell’Olimpiade londinese un giornalista chiese a Jury Chechi di commentare la fallimentare performance della compagine italiana. Il giornalista disse “siamo stati un po’ sfortunati in questa Olimpiade”. Jury rispose laconico: “io non credo alla sfortuna nello sport professionistico: una preparazione attenta e la meticolosa cura dei particolari la possono quasi annullare”. Mai definizione fu più calzante per il rugby professionistico moderno!
Il rugby di oggi è uno sport “militare” dove spesso una piccola carenza di attenzione porta ad una serie letale di conseguenze: la differenza tra gloria e disfatta è ormai limitata ad alcuni momenti chiave ove un calcio svirgolato, una mancata identificazione di superiorità numerica o un placcaggio errato possono far pendere la bilancia da un lato piuttosto che un altro.
La cura dei particolari è oggi il nuovo elemento che definisce la squadra vincente. Il capolavoro di precisione dell’ultimo Sei Nazioni è stato il trionfo irlandese contro la nazionale inglese: lo stratega Joe Schmidt ha dimostrato infatti come la cura di ogni singola fase di gioco, di ogni singolo calcio (non solo quelli irlandesi venivano eseguiti con precisione metronomica ma anche la scelta dei destinatari, Tommy Bowe e Rob Kearney, era stata decisa a priori in base alle loro doti acrobatiche) e la capacità di anticipare ogni mossa avversaria gli hanno permesso di aggiungere uno scalpo importante alla sua collezione.
Nelle nazioni rugbisticamente evolute però questa cura dei particolari nasce molto prima del calcio d’inizio: i “governi illuminati” sono quelli che, al fine di mettere la squadra nazionale nelle migliori condizioni, creano un humus fertile all’interno del proprio movimento. Una federazione diligente è infatti quella che aiuta i propri club a prosperare e a crescere talenti (con allenatori/supervisori di livello ma anche con mezzi economici e contratti ad hoc che disciplinino in maniera dettagliata la relazione club/nazionale), che si adopera al fine di mettere questi talenti nelle migliori condizioni fisiche e mentali (ricordiamoci ad esempio cosa successe l’anno scorso ai giocatori del Treviso che non sapevano se cosa sarebbe stato di loro a fine stagione) e che, cosa fondamentale nello sport di squadra, fa in modo che gli atleti siano spesso a disposizione dell’allenatore della Nazionale.
Un test-match internazionale rappresenta ormai il livello di sofisticatezza raggiunto dal movimento di ogni singola nazione. Il rugby è uno sport dove fare passi avanti è molto difficile (se ne accorse la Francia quando entrò nel Quattro Nazioni e, ahimè, se ne sta rendendo conto il Belpaese dopo 15 anni di Sei Nazioni) ed un’analisi di quello che viene espresso sul campo non deve fermarsi all’eventuale giornata di grazia o meno dei 23 che entrano in campo.
Nel calcio possono esistere risultati rocamboleschi, nel rugby no. In ogni partita un intero movimento viene messo in discussione, a partire dalla Federazione e le sue decisioni in merito a come gestire il movimento, passando per i club, sino ad arrivare alla scelta dell’allenatore e dei giocatori. Più un governo è illuminato e più riesce ad ottimizzare le sue risorse, altrimenti come si spiegherebbe il fatto che paesi relativamente piccoli come Galles, Samoa o il Portogallo nel 7s riescano a competere ad alto livello?
E’ utile osservare a questo proposito l’iter che ha seguito la federazione inglese (RFU) dal 2011 ad oggi. L’Inghilterra uscì anticipatamente dalla Coppa del Mondo di quell’anno e, cosa più grave, la nazione perse il rispetto per la maglia bianca dopo che alcuni giocatori vennero ripresi ad ubriacarsi dopo una delle poche vittorie (la famosa serata culminata nel lancio dei nani).
Nei mesi successivi l’interesse per lo sport ovale diminuì sensibilmente, gli spettatori delle partite di prima divisione calarono in maniera vistosa mentre la relazione tra nazionale e club (che spesso vedevano i propri giocatori infortunarsi nei test internazionali) raggiunse un punto di rottura.
Fu allora che la RFU decise di staccarsi dalla passata gestione di stampo amatoriale/dilettantistico (i detrattori dicevano sarcasticamente che la federazione era basata su quattro pilastri: Gin, Tonic, Ice & Lemon) e prese un importante decisione in ottica di sviluppo futuro: assumere un Chief Executive professionista che non veniva dal mondo del rugby ma che aveva un provato curriculum in business and sport management: Ian Ritchie, l’uomo che aveva trasformato il torneo tennistico di Wimbledon in un fenomeno commerciale globale.
Appena nominato Ritchie dichiarò che il suo obiettivo era quello di far ritornare la nazionale competitiva al fine di coinvolgere nuovamente il pubblico. Il suo fine non celato era quello di trasformare la prima squadra in una “Money Making Machine” al fine di poter generare grandi profitti da reinvestire nel movimento.
Per fare questo Ritchie iniziò ad aiutare tutti i club: quelli più piccoli, che sono il vero cuore pulsante del movimento rugbystico, tramite una struttura di advisors federali ai quali è affidato il compito di dare supporto tecnico, manageriale e finanziario, mentre quelli più grandi e/o professionistici tramite un accordo di programma tendente a scambiare finanziamenti contro il vincolo di rilasciare i giocatori alla nazionale per lunghi periodi.
Decise inoltre di confermare Stuart Lancaster in quanto il nuovo coach stava ricostruendo la squadra partendo dai giovani inculcando una nuova mentalità ispirata ai valori chiave del rugby (amore per la patria, sacrificio, appartenenza alla squadra e alla maglia…) e questo creava appeal con il pubblico.
Quattro anni di “cura Ritchie” hanno già portato forti cambiamenti: i giocatori di interesse nazionale vengono oggi rilasciati spesso dai club per gli allenamenti con la nazionale (a volte, i alcuni periodi dell’anno, anche per uno-due giorni ogni settimana) e questo sta comportando un miglioramento nelle performances, il pubblico si è nuovamente avvicinato a Twickenham, la presenza media di spettatori alle partite di Premiership è cresciuta sino a raggiungere le 12.500 unità e, dulcis in fundo, gli introiti medi per ogni partita casalinga dell’Inghilterra sono di 12,3 milioni di sterline, ovvero circa 16,6 milioni di euro tra merchandise, corporate boxes venduti alle aziende, rugby shop e, data sete e appetito dei rugbisti, birre, food & drinks…
di Marco Rivaro
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