In una data storica per il Sudafrica, rievochiamo anche il giorno in cui – grazie al rugby – la nazione arcobaleno si scoprì unita
Nome: François
Cognome: Pienaar
Ruolo: Flanker
Edizioni RWC disputate: 1995
Presenze RWC: 6
27 aprile 1994: per la prima volta in Sudafrica si tengono elezioni in cui neri e bianchi hanno gli stessi diritti. Una giornata storica, ancora oggi celebrata nella nazione arcobaleno. Un paese in piena trasformazione, dove la gioia per la libertà conquistata e il senso di rivalsa andavano di pari passo, dove l’integrazione conquistata a livello di diritti era ancora molto distante dal divenire realtà.
Solo un anno più tardi il Sudafrica si apprestava a ospitare il primo grande evento sportivo dopo la fine dell’apartheid, la terza edizione della Rugby World Cup. Il rugby era lo sport dei bianchi, degli inglesi e degli afrikaneer, odiati e disprezzati da quei neri che vedevano in Nelson Mandela il proprio leader e liberatore. Madiba chiamò a colloquio il 27enne capitano dei Boks, François Pienaar, il perfetto esemplare di bianco afrikaans: biondo, alto, prestante. Il flanker uscì da quell’incontro con un’illuminazione, al pari di San Paolo sulla via di Damasco: lui e i suoi compagni dovevano vincere quella Coppa, lo dovevano a tutto il paese.
Alla vigilia dell’inizio del Torneo questo proposito sembrava difficilmente realizzabile: in quel momento gli Springboks erano considerati al massimo degli outsider, gli australiani avevano vinto tutti match dell’ultimo anno, gli All Blacks schieravano tra gli altri quel fenomeno di origine tongana che risponde al nome di Jonah Lomu.
Nell’ordine Australia, Romania, Canada, Western Samoa e Francia caddero sotto i colpi dei verdeoro, in un tripudio di festa dell’intera nazione che, dapprima con qualche riserva, cominciò poi a seguire e sostenere la causa del rugby. Lo sport degli odiati bianchi diventò, ogni giorno di più, il simbolo di una nazione unita sotto un’unica, nuova bandiera.
24 giugno 1995, 63mila spettatori, in buona parte bianchi, affollano gli spalti dell’Ellis Park di Johannesburg. La tensione è palpabile tra i giocatori, a pochi minuti dall’inizio del match Mandela scende in campo per salutarli indossando la maglia numero 6, la maglia del capitano, la maglia di François Pienaar.
Ed Morrison fischia, la battaglia ha inizio. E di una vera e propria battaglia si parla: due tempi regolamentari, due tempi supplementari, nessuna meta. 9 a 9 alla fine dei tempi regolamentari, un drop di Joel Stransky fissa il punteggio sul 15 a 12 alla fine del secondo tempo supplementare. Ogni grande battaglia ha un grande condottiero: François Pienaar si carica la squadra sulle spalle e non molla nonostante un infortunio al polpaccio.
Mischia a pochi metri dalla linea di meta neozelandese, la palla viene toccata in avanti, l’arbitro inglese fischia la fine. Una squadra, uno stadio, una nazione intera esplodono di gioia. Pienaar alza le braccia al cielo, poi si lascia andare in ginocchio, subito raggiunto dai suoi compagni. Lo stadio in delirio, i 21 raccolti in un cerchio, ascoltano le parole del proprio capitano. Gli occhi di tutti cercano Madiba, ma in tribuna non c’è.
Ricompare sul campo, felice, raggiante, indossando con orgoglio la maglia e il cappello dei campioni del mondo. Prende in mano la coppa, guarda negli occhi Pienaar e gli stringe la mano. Due maglie verdeoro, due numeri 6, due persone diverse ma unite nel desiderio di rendere grande e unito il Sudafrica, in un’immagine che ha segnato la storia.
Il capitano prende la Webb Ellis Cup, la soppesa, la alza verso il cielo; lo stadio esplode in un tripudio di bandiere sudafricane. Lo speaker chiede a Pienaar cosa vuole dire diventare campioni del mondo davanti a 63 mila supporter: “Noi non avevamo 63mila tifosi. Noi avevamo 43 milioni di sudafricani a sostenerci”, questa la risposta, cui fa eco uno stadio che sembra capire fino in fondo l’eccezionalità del momento, che va molto oltre la semplice vittoria sportiva.
In sottofondo, le note e le parole di “World in Union”, l’inno dei mondiali:
“There’s a dream
I feel, so rare, so real
All the world in union
The world as one”
Forse mai come in quel momento queste parole non erano solo un’utopia.
di Matteo Zardini
Leggi le altre cartoline mondiali: Jonny Wilkinson – John Kirwan – Mario Ledesma – David Campese – Shane Williams – Serge Blanco – Brian O’Driscoll – Gavin Hastings – Victor Matfield – Brian Lima – Nicky Little – Takudzwa Ngwenya
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