Il dopo Mondiale 2015 diventerà un punto di svolta per lo sviluppo del rugby. Ma c’è il rischio di una involuzione?
Proviamo a metterli in fila? Ci sono Dan Carter, Ma’a Nonu, Will Genia, Quade Cooper, Conrad Smith, James Horwill, i fratelli du Plessis, Duane Vermeulen e Adam Ashley-Cooper. E questi sono solo i primi nomi che ci vengono in mente, così su due piedi. Perché a pensarci bene l’elenco dei giocatori che dopo il Mondiale (o comunque questa estate) lasceranno l’emisfero sud per trasferirsi per alcune stagioni in Europa o in Giappone è molto, molto più lungo. Perché ci sono anche Ben Mowen, Colin Slade, Bernard Foley, Charles Piutau, Francis Saili, Sekope Kepu, Pierre Spies, Willem Alberts, Francois Steyn, Nic White, Demetri Catrakilis, Jesse Mogg, Schalk van der Merwe. E sicuramente ci stiamo dimenticando di qualcuno. Qualcosa di molto simile a un esodo, una simile transumanza non si era mai registrata per quantità e qualità.
Perché è vero che il sud di Ovalia vince i Mondiali, ma i soldi veri stanno a nord. Premiership inglese e Top 14 francese hanno un richiamo economico che nessun altro paese oggi è in grado di pareggiare, mettendo sul piatto anche tornei di elevatissimo livello tecnico e tattico. La Top League giapponese è sicuramente torneo inferiore, ma dalla sua ha stipendi mediamente molto elevate e un calendario che ben si adatta con il Super Rugby e le finestre internazionali.
La risposta che le principali federazioni dell’emisfero sud hanno dato e stanno dando è diversa: c’è la politica neozelandese che chiude ogni possibilità di giocare in nazionale per chiunque vada a giocare lontano dalla madrepatria, linea seguita ora anche dalla federazione argentina che grazie all’ingresso nel Super Rugby è riuscita a mettere un freno alla continua e ininterrotta fuoriuscita dei suoi giocatori migliori.
L’Australia fino a qualche settimana fa praticava la stessa politica, ma ora l’ha alleggerita: da aprile sono infatti eleggibili per la nazionale anche i giocatori che militano in club lontani dalla madre patria purché abbiano già accumulato 60 caps e che nel loro passato possano vantare almeno 7 anni di contratti professionistici con la stessa federazione. Paletti che impediscono la “fuga” dei giocatori più giovani e la cui efficacia sarà possibile misurarla nei prossimi 2-3 anni.
C’è infine il Sudafrica, che dall’Europa è distante diverse migliaia di chilometri ma che si trova sullo stesso fuso orario. E la federazione di Johannesburg tenta infatti di mantenere in patria i suoi talenti ma non alza nemmeno delle barriere normativo-burocratiche insormontabili.
Discorso a parte va invece fatto per Tonga, Fiji e Samoa.
Quello che stiamo raccontando è una conseguenza inevitabile del professionismo. Ad alcuni non piacerà, ad altri sì, ma probabilmente il punto non è questo: metteresi a fare la “guerra” (e sottolineamo le virgolette) alla ricchezza prodotta da alcuni tornei è come combattere i mulini a vento. Oltretutto a chi di noi non piacerebbe che anche l’Eccellenza potesse tornare ad essere in qualche modo un polo d’attrazione per grandi stelle straniere, magari anche avanti nell’età? Quello che fa la Top League nipponica insomma. Non nascondiamoci, ne saremmo felicissimi.
L’importante èmantenere un punto d’equilibrio tra le necessità dei vari tornei nazionali (con il corollario delle competizioni continentali per l’Europa) con il calendario internazionale. Non deve cioè capitare quello che ormai è assodato o quasi nel calcio, e cioè che le nazionali sono vissute come un intralcio. Non è facile, anche perché la ricchezza può trasformarsi in ingordigia in maniera piuttosto rapida, ma quello deve essere l’obiettivo.
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