Crescita del movimento e autarchia tecnica: ce lo possiamo permettere?

Le indicazioni sono diverse, le controindicazioni numerose

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Stagione nuova, coppa (semi) nuova, polemiche vecchie. The Rugby Paper, nell’analizzare la composizione dei gironi della Champions Cup, non risparmia una buona frecciata all’Italia, o meglio al regolamento della competizione, che prevede un posto garantito per almeno un club celtico di ciascuna delle quattro federazioni del Pro12. Le parole sono parecchio dure: “Dopo sedici anni di professionismo per adattarsi nel processo – si legge sul settimanale inglese – è ora che i club italiani si alzino e chiedano aiuto. Il regalo del posto assicurato [in Champions Cup] non è più necessario, ed è ora che quel passaporto tra i venti miglior club europei se lo guadagnino per il merito. E’ ora che inizino a copiare dall’Irlanda e chiamino allenatori esteri di alto livello per alzare lo standard“.

 

Al di là del merito della questione, e sulla convenienza o meno del regolamento esistente, resta difficilmente contestabile l’appunto mosso a proposito della necessità di rivolgersi ad allenatori stranieri per alzare il livello. Purtroppo però, quella che agli occhi di molti appare come una soluzione ideale (tanto più che la adottano pure paesi e federazioni rugbisticamente ben più avanzati), si scontra con logiche diverse e di non semplice comprensione. Mentre l’Irlanda vince il Sei Nazioni con un neozelandese in panchina, più volte il presidente federale Gavazzi ha espresso il desiderio di vedere un tecnico italiano non solo sulla panchina della Nazionale, ma anche delle franchigie celtiche.
E se l’idea di un allenatore italiano alla guida della punta di diamante del movimento può essere visto come ideale traguardo di un percorso di crescita personale e collettiva, più difficile è comprendere la posizione per le due franchigie. “Considero fondamentale che sia un italiano”, dichiarava nell’aprile 2014 al Corriere del Veneto il numero uno FIR a proposito dell’allenatore della Benetton. Ma una simile politica di autarchia tecnica, è fondamentale, dannosa, o peggio si verificherà per esclusione?

 

Se la crescita di un giocatore si ottiene anche attraverso la sua partecipazione a campionati di alto livello, la stessa cosa si applica anche a chi quel giocatore lo allena. Il problema, però, sorge naturale. Il livello dell’Eccellenza prepara un allenatore a guidare una franchigia in Pro12? Allo stato attuale delle cose, no. Le strade allora sono due: mandare in giro per il mondo tutti i tecnici italiani più bravi, soluzione in realtà più percorribile di quanto non si possa pensare in un primo momento, oppure portare in Italia almeno due tecnici stranieri di alto livello, affidare loro la guida tecnica della Nazionale e/o delle franchigie.
E in contemporanea e più in generale un percorso di formazione che a cascata istruisca gli allenatori delle categorie inferiori (Eccellenza e Serie A) attraverso stage e seminari. L’unico ostacolo, o almeno oggi sembra esserlo, sarebbe quello trovare due tecnici di alto profilo disposti a venire in Italia. Altrimenti, un tecnico italiano si siederà sulla panchina della Nazionale non per merito, ma per esclusione.

 

Di Roberto Avesani

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