Dove nasce il gap: il rugby giovanile tra Italia e mondo anglosassone

Una scuola che non funziona come si vorrebbe ma anche regole da cambiare pure tra i più piccoli…

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Una cara amica mi ha recentemente mandato una foto di suo figlio annunciandomi orgogliosa che aveva appena iniziato a giocare a rugby. Dopo un iniziale entusiasmo dovuto alla consapevolezza che il piccolo Jacopo aveva appena scoperto uno degli sport piu affascinanti al mondo, la mia attenzione volse alla ammuchiata della foto e subito mi chiesi cosa aveva potuto imparare da quella esperienza e, in particolare, cosa possano servire queste ammucchiate al rugby italiano…
Nelle mie spoglie di genitore ho passato molto tempo ad osservare partite di giovani atleti tra Inghilterra e Italia e, molto spesso, la scena che vedo in Italia è quella di un grosso mischione che si muove per il campo, quasi a ricordare uno sciame d’api intorno alla regina: solitamente il bimbo più sviluppato fisicamente (o più capace) prende la palla e inizia a correre sin tanto che tutti gli si attaccano addosso creando lo sciame. A questo punto, a meno che non si sia segnata una meta, solo l’intervento dell’allenatore può interrompere l’ammucchiata per riportarla immancabilmente in qualche altra parte del campo…

 

La situazione in Inghilterra (e in molte altre nazioni rugbisticamente evolute) è ben diversa: il contatto fisico è proibito infatti fino al decimo anno di età. Si gioca infatti al “touch” o con le straps (le striscette attaccate alla vita con il velcro che se vengono staccate simulano il placcaggio). La mancanza di contatto ha molti vantaggi: innanzitutto in un periodo in cui i media stano insistendo molto sulla pericolosità del rugby, la presentazione di una versione soft apre molte più porte nel mondo scolastico. I genitori sono più contenti di sapere che i figli non torneranno a casa “ammaccati” e sono quindi più aperti all’idea di introdurli al gioco e, cosa molto importante, è più facile coinvolgere anche le bimbe in quanto non si sentono sopraffatte fisicamente.
La differenza più grande nel togliere il placcaggio risulta però nel tipo di apprendimento. Questo accorgimento stravolge completamente il tipo di esperienza ed il percorso cognitivo: la bimba/o è coscente del fatto che può battere l’avversario solo con la velocità/agilità o con il movimento della palla. All’improvviso questa limitazione porta il piccolo atleta a sviluppare una concezione periferica dello spazio e ad analizzare non solo l’immagine frontale ma anche gli spazi più lontani da lui sino a realizzare che spesso il modo migliore di superare il difensore è tramite il passaggio della palla ad un compagno smarcato.
Sapere di non poter battere  l’avversario con la forza porta il cervello a cercare soluzioni alternative: da qui nasce il concetto di percezione degli spazi, di visione di gioco e, infine, di capacità di riconoscere l’eventuale superiorità numerica.Questi sono le skills più raffinate e difficili da inculcare in un giocatore e solo quando vengono assimilati in giovanissima età possono raggiungere livelli assoluti.

 

Spesso in Italia l’insegnamento del rugby ai piu giovani è lasciato a volontari (spesso a genitori ex giocatori che il più delle volte non hanno ricevuto nessuna specifia preparazione e che a titolo gratuito sfidano le intemperie in campi senza le benché minime strutture ricettive: non parliamo di clubhouses ma anche solo di una tettoia dove bere un caffé caldo..) e che quindi non si possa assolutamente puntare il dito su questa legione di appasionati che tanto stanno facendo per il nostro movimento. E’ fondamentale però che si lavori al fine di aumentare il livello qualitativo dell’insegnamento del rugby giovanile se vogliamo continuare a competere con i migliori.
Dall’ultima Coppa del Mondo 2011 si sta creando infatti un’ulteriore gap tra quelle nazioni ove lo sport è ben praticato in giovane età e quelle dove questo non accade. Il mondialino U20 ha confermato quello che si era gia visto nel Sei Nazionisia seniores che juniores: il solco tra le squadre latine (Argentina esclusa, ma qui il discorso è diverso) e quelle anglosassoni sta crescendo.

 

La performance italiana è stata nel complesso negativa, ma anche quella francese contro squadre di pari livello non è stata molto meglio, gara con gli inglesi a parte: chi avesse visto la partita contro la Nuova Zelanda (che sino a pochi anni orsono vedeva la Francia come l’unica squadra capace di sottometterla) avrebbe notato che la sconfitta è stata piu pesante di quanto il risultato possar far pensare. I Baby Blacks erano infatti ben più preparati tecnicamente dei pari età francesi proprio nei basic skills: visione di gioco, offloads nei placcaggi, due contro uno, eccetera.
Mentre possiamo giustificare il fatto che gli azzurrini possano perdere contro squadre che hanno tradizioni e movimenti ben superiori al nostro (anche se perdere in casa contro Samoa…) èdifficile giustificare il fatto che che la nazione che ha il rugby piu ricco al mondo non riesca a competere contro le più forti.

 

Se osserviamo la performance della squadra transalpina ci rendiamo conto infatti che il trend non è certo quello dei migliori: arrivati in finale alla Coppa del Mondo 2011 (quasi più per caso che per bravura) ma già da tempo a livello internazionale la stella francese non brilla più. E senza nulla togliere alla nostra nazionale ma i galletti hanno perso per due volte anche a Roma…
Inizialmente si poteva attribuire tale decadimento all’alto numero di stranieri che militano nel campionato francese ma una intervista all’allenatore del Racing 92 Laurent Labit ci apre gli occhi. Labit lamenta il fatto che ci sia un “grosso problema di insegnamento dello sport nelle scuole francesi” e prosegue: “ in Inghilterra e nell emisfero sud i bambini hanno molte opportunità di praticare vari sport a scuola e questo migliora le loro doti motorie basilari mentre nelle nostre scuole l’ora di educazione fisica è spesso una perdita di tempo”. E quanto questo ultimo commento mi ricorda le  mie noiosissime ore di ginnastica dove il massimo dello sforzo era fare due flessioni…

 

Nella maggior parte dei casi in Francia e Italia chi vuole far fare sport ai figli deve farlo al di fuori del mondo scolastico e questo comporta che i nostri giovani arrivano ai 13/14 anni avendo già un gap di capacità motorie basilari rispetto ai pari età anglosassoni.
Chi scrive ha da tempo la convinzione che l’evoluzione del rugby professionistico abbia in un certo senso semplificato la disciplina e che il risultato di una partita di rugby sia la sommatoria di una serie di scontri uno-contro-uno ove il XV con le skills migliori (sia motorie che tecniche) alla fine prevalga.
Proviamo a spiefargi meglio: se teoricamente si avessero 15 giocatori con doti assolute (come li definisce il buon Antonio Raimondi: “gli indottrinati “) non ci sarebbe bisogno né di giocate, né di calci: sarebbero infatti in grado di attaccare dalla loro linea di meta e grazie alla loro capacità di andare a contatto senza perdere possesso potrebbero continuare a far vivere il pallone in continue ondate sino a sfiancare la difesa e a trovare un buco o per una superiorità numerica che grazie alla “visione periferica” verrebbe prontamente individuata.

 

Il rugby moderno con i suoi ritmi e le frequenze di gioco aumentati a dismisura comporta che ogni giocatore tocchi più volte il pallone, placchi di più, e sia coinvolto in svariate situazioni di gioco molto più spesso di quanto non avveniva solo 10 anni fa. Basta che un solo giocatore  non abbia doti raffinate e questo si farà sentire nell’economia dell’ incontro: una volta stanco questo giocatore meno dotato tecnicamente finirà per commettere un errore e compromettere lo sforzo collettivo: ai miei tempi c’erano dei piloni che a volte non toccavano neanche una volta la palla, oggi questo sarebbe inimmaginabile!
Questa premessa pone l’accento sull’importanza della preparazione di medio/alto livello già dalla giovane età. Il fatto che il nostro modello scolastico comporti già un gap in termini di formazione sportiva rispetto ad altre nazioni ci deve spingere a lavorare ancora di più sulla preparazione dei giovani, o meglio, sulla preparazione di quelle persone che allenano i nostri futuri campioni.

 

Il giorno che abbiamo deciso di entrare nel Sei Nazioni abbiamo accettato una sfida importante. Abbiamo deciso non solo di sfidare sul campo il gotha del rugby ma anche di arrivare (un giorno) al suo livello organizzativo: se si vuole combattere ad armi pari bisogna continuare ad evolversi guardando ai migliori tentando di carpirne i segreti. E’ inutile dire che gli altri hanno movimenti, tradizioni e budgets enormemente più grandi dei nostri: la storia dello sport è piena di situazioni dove Davide sconfigge Golia.
Il nostro movimento sta attraversando un momento difficile e deve prendere delle decisioni importanti per assicurare il futuro del rugby italiano. La cosa importante è che tali decisioni non cerchino soluzioni per risolvere l’immediato ma che assicurino la competitività nel lungo periodo. La risposta a queste difficili domande forse si trova sotto una tettoia sgangherata in un campo di periferia dove un genitore sta tentando di passare la “religione ovale” alle generazioni future… non solo ha bisogno di un caffé caldo ma di aiuto, di preparazione e di focus da parte di tutti noi.

 

di Marco Rivaro

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