Marco Bortolami intervista in esclusiva per OnRugby il campione del mondo 2007 con gli Springboks, oggi tre quarti ala del Tolone
Lo sport nella storia è stato spesso utilizzato come strumento di propaganda e come mezzo per riscuotere attenzione e consenso. Il caso del rugby in Sudafrica è un esempio positivo ed emblematico, probabilmente irripetibile. Mai uno sport di squadra è stato tanto importante nel processo di unificazione di una nazione, una nazione divisa e sofferente a causa di enormi problemi d’integrazione sociale. Nel 1995 Nelson Mandela “prende per mano” gli Springboks intuendo la straordinaria opportunità di raccogliere intorno a una squadra e a uno sport l’intero Paese e di riscattare il Sudafrica agli occhi del mondo.
Il rugby, sino ad allora lo sport dei bianchi, diviene un’allegoria di coesione. Gli Springboks sono un gruppo di uomini che si carica sulle spalle il futuro della propria terra per ridarle gioia e speranza. Una nazione intera s’identifica in quello che diviene il simbolo del cambiamento.
Il Sudafrica è terra di rugby.
Nel1995 Bryan Habana [ndr: Johannesburg, 12 giugno 1983] era un adolescente che non aveva mai giocato a rugby e si accingeva a iniziare la High School. Attraverso il suo appassionato racconto viviamo l’esperienza di un ragazzo a cui quei giorni hanno cambiato il corso della vita; un ragazzo che non poteva certo immaginare che lui stesso sarebbe diventato uno dei più grandi ambasciatori del rugby sudafricano e mondiale.
Brian potresti raccontarci dove e quando hai iniziato a giocare a rugby?
Dopo aver assistito alla Coppa del Mondo in Sudafrica nel 1995. Ho iniziato all’età di 13 anni quando frequentavo la King Edward VII School, era il 1996.
Non avevo mai praticato il rugby prima di allora e la mia partita d’esordio la giocai come mediano di mischia per la categoria under 14.
Quali sono i tuoi ricordi della Coppa del Mondo del 1995?
I ricordi che mi tornano alla mente sono quelli di aver avuto il permesso di saltare scuola, per la prima volta in assoluto, e andare da Johannesburg a Città del Capo per assistere alla partita inaugurale della Coppa del Mondo allo stadio di Newlands che vedeva il Sudafrica giocare contro i campioni del mondo in carica dell’Australia.
Poi un lungo viaggio fino a Durban e venire travolto dall’intensa semifinale contro la Francia, l’opportunità di fare foto con alcuni dei miei eroi degli Springboks e degli All Blacks. Ma soprattutto il ricordo più bello: quello di essere così fortunato da poter assistere al trionfo della finale insieme a mio padre all’Ellis Park.
Penso che la squadra del mondiale del 1995, capitanata da François Pienaar, sia stata l’ispirazione più grande a spingermi a giocare a rugby. Vedere come quel gruppo di giocatori abbia unificato una nazione e dato speranza al nostro bellissimo Paese è stato un immenso stimolo e ha instillato in me il sogno di voler fare lo stesso un giorno… Vedere Nelson Mandela entrare in campo all’Ellis Park indossando la maglia numero 6 è stato uno dei momenti indimenticabili della mia infanzia.
Hai mai sognato di vincere la Coppa del Mondo un giorno?
Ho sicuramente sognato di far parte di una squadra degli Springboks che potesse ripetere la straordinaria impresa del gruppo del 1995 e, come migliaia e migliaia di altri ragazzi in Sudafrica, il sogno di diventare uno Springbok era un desiderio che ardeva dentro il mio cuore!
Perché quella vittoria è stata così importante per il processo d’integrazione in Sudafrica?
Vedere come quella nazionale ha unificato e dato speranza al nostro stupendo paese, che era appena diventato una democrazia dopo l’apartheid, è stato importantissimo. Solo un anno dopo le prime elezioni democratiche, con la situazione ancora in subbuglio e molta incertezza sul futuro, vincere la Coppa del Mondo ha dato alla nostra popolazione un segnale di cosa potevamo diventare se tutti avessimo creduto e lavorato per un futuro migliore… e per un giovane come me è stato di immensa ispirazione poter credere di ripetere un’impresa così grande!
Cosa significano gli Springboks per te?
Come disse Nelson Mandela in uno dei suoi ultimi discorsi: “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare e di unire le persone come poche altre cose sanno fare. Parla in un linguaggio che i giovani comprendono. Lo sport può dare speranza dove un tempo c’era solo disperazione. Lo sport è più potente dei governi nel rompere le barriere razziali. Irride ogni tipo di discriminazione”.
Gli Springboks significano tutto questo per un paese che ha disperatamente bisogno di aiuto e farne parte è un immenso onore e responsabilità.
Quali sono le differenze culturali e tecniche nel giocare a rugby in Sudafrica e in Francia?
Ci sono alcune differenze dal punto di vista culturale. Prima di tutto, in Sudafrica gli stadi sono molto più grandi, minimo da 35 mila spettatori, mentre quelli francesi, più raccolti, rendono il clima più infuocato grazie alla passione degli spettatori. In Francia ci sono 14 squadre in prima divisione, ogni club è speciale, con le sue proprie tradizioni, colori e canti. Per me la difficoltà maggiore è rappresentata dalla lingua, in quanto imparare il francese è molto complicato, ma è l’unica maniera per integrarsi con il club.
Da un punto di vista più tecnico in Francia, a causa delle condizioni meteo, soprattutto durante l’inverno, il gioco è molto più una questione tra i due pacchetti di mischia e il gioco tattico al piede è importantissimo. In Sudafrica, al contrario, grazie ai campi molto più veloci, i trequarti possono esprimersi maggiormente. La qualità dei giocatori è altissima in entrambi i paesi per cui la competizione è ai massimi livelli.
Quali sono gli ingredienti necessari per una squadra che aspira a vincere una Coppa del Mondo?
Se una squadra vuole aspirare a vincere la Coppa del Mondo deve avere doti di grande esperienza e leadership. Giocatori che siano in grado, in situazioni di massima pressione, di prendere le decisioni giuste e capaci di eseguire i gesti tecnici con grande efficacia e freddezza.
Qual è stato il momento più difficile della tua carriera e come lo hai superato?
Uscire dal campo ricoperto dai fischi nel 2010, quando giocavo per gli Springboks, è stato un momento molto difficile della mia carriera. Ho dovuto ricominciare da capo, lavorare ancora più duramente di come avessi mai fatto fino ad allora, ripetermi che ero ancora in grado di rappresentare gli Springboks, dare fiducia non solo a tutte quelle persone che erano al mio fianco e mi supportavano, ma soprattutto ripagare il loro sostegno e tornare non solo un giocatore migliorato, ma anche una persona più forte.
Qual è stato il miglior allenatore che hai avuto e perché?
Ho avuto il privilegio di lavorare con dei grandissimi allenatori nella mia carriera. Sia Jake White sia Heyneke Mayer sono unici per lo stile che li contraddistingue e con entrambi ho ottenuto grande successo e straordinarie vittorie. Mi sono molto divertito a lavorare con Eddie Jones durante la Coppa del Mondo del 2007. La sua conoscenza del gioco è straordinaria e ancora più sorprendente è la calma determinazione che mette nel ricercare il successo in ogni cosa che fa.
Quanto ancora giocherai e che progetti hai per il tuo futuro fuori dal campo?
Penso che giocherò ancora per tre o quattro anni se avrò la sensazione che il mio fisico e le mie motivazioni saranno all’altezza del rigore del gioco.
Per quello che sarà la mia vita una volta terminata la carriera da giocatore ancora non lo so… Ho cercato di fare qualche buon investimento e creato una rete di conoscenze nel mondo del business in cui potrei inserirmi.
Mi piacerebbe giocare a golf quattro volte la settimana, ma non sono sicuro sarebbe molto produttivo!!!
di Marco Bortolami
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