Marco Pastonesi regala uno speciale ritratto del giocatore della Benetton, cresciuto a pane e palla ovale
E’ nato ovale. Sarà stato per la sala, il letto, la culla. Sarà stato per il nonno, Pino, arbitro, dirigente, presidente del Comitato regionale lombardo, o per il papà, Gianluca, apertura e allenatore, o per lo zio, Paolino, apertura ed estremo, o per il fratello (maggiore: quattro anni), Federico, centro, ala, estremo, o per il cugino, Luca Bestetti, così come lo sarebbe stato anche per i figli di Paolino, Ale e Mattia, due petardi. Simone Ragusi è uno di quelli nati ovali, tanto da non ricordarsi né il primo pallone ovale, né il primo campo ovale, né la prima volta ovale, perché così la vita è sempre stata. Ovale, appunto. E perché così probabilmente è sempre successo: forse, da quando aveva quattro anni, al Giuriati, a Milano. “Un po’ pascolo, un po’ parcheggio, un modo per sfogarmi ed esprimermi, una libertà vigilata e condizionata, a metà fra l’educazione e il militare, fra il parco giochi e il luna park”.
A rendere Simone meno ovale ci hanno provato nuoto, atletica, basket, pallamano e calcio. Niente da fare. Perché nel rugby lui ha trovato non solo un po’ di tutto quello, ma anche lotta e scacchi, per fortuna non biliardo e tennistavolo, gli unici sport in cui è proprio scarso. Bello, lo sport, anche da vedere: la prima volta a San Siro, inteso come Inter, secondo anello rosso con la complicità del nonno, le partite dell’Olimpia ad Assago a tifare per Bruno Cerella, “il più rugbista fra i cestisti”, e il resto in tv, da Wimbledon al Tour, da Valentino al Settebello, brividi e boati, scosse e tonfi. A rendere Simone meno ovale ci ha provato anche la scuola. “Se a scuola fossi andato come nello sport, sarei stato un genio, un Nobel. Invece no: bocciato, cambiato, emigrato, prima o poi diplomato, anche se prima avevo il tempo ma mi mancava la voglia, adesso la voglia ci sarebbe, ma è il tempo a mancare”.
Ragusi è cresciuto biancorosso di Asr Milano, poi gallese di Ospreys e Bridgend Ravens, dove – per dirne uno solo – JPR Williams è stato giocatore e presidente, poi cavaliere di Prato, rossoblù di Rovigo e biancoverde di Benetton, perfino azzurro, ma solo in allenamento, tribuna e panchina, mai in campo con tanto di “cap”. “Una strana esperienza. L’emozione di giocare con Castro e Parisse, visti da ragazzino in tv e poi ritrovati in campo e nello spogliatoio. Il prestigio, la responsabilità, il privilegio. La consapevolezza di quanto quei giorni siano belli e indimenticabili”. Lui, cresciuto apertura e diventato centro ed estremo, “costretto” all’ala. “Ma se l’ala non è solo uno grande e grosso che corre i 100 metri in 10 secondi, ma un secondo estremo capace di adattarsi alle situazioni e alle posizioni, allora va bene anche all’ala”. E le occasioni, se non arrivano, si possono sempre creare.Le occasioni fanno l’uomo ladro, anche di mete. Quella volta – memorabile – quando la prima partita di Simone corrispondeva all’ultima dello zio Paolini, primo pallone e prima meta, con l’Asr Milano. Quella volta – anzi, tutte quelle volte – in cui Simone giocava in coppia con un altro nato ovale, Luca Morisi, Simone che gli dava il pallone e Luca volava in meta. Quei momenti di stato di grazia, in cui tutto sembra così leggero, elastico, perfetto, e quei giorni – ci sono anche quelli – in cui si sfiora il disastro, o addirittura ci si affonda. “Under 18, Nord-Ovest contro Centro-Sud: fatto schifo”. Non è tutto. “Varese-Asr Milano. Calci sbilenchi, scelte sbagliate. Mio padre, allenatore, non mi ha parlato per una settimana”.
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