Il carattere, la conquista, Parisse e due “cagnacci” in seconda linea. Ecco come abbiamo rialzato la testa dopo Edimburgo
Andare più in basso di Edimburgo sarebbe stato difficile, ma francamente la reazione degli Azzurri arrivata da Cardiff è andata oltre le migliori attese. Vero che non si è vinto, vero che si tornerà a parlare di “sconfitta onorevole” e altro ancora, ma quanto visto in campo al Millennium Stadium speriamo metta una pietra sulle ultime uscite della Banda Brunel (finale di Sei Nazioni compreso) e lasci messaggi positivi nella testa dei giocatori in vista dell’esordio iridato contro la Francia.
Lo ha detto in conferenza stampa nel dopo gara coach Brunel: “Andare in Inghilterra dopo una sconfitta come quella di Edimburgo sarebbe stato preoccupante ma oggi (ieri, ndr) contro il Galles abbiamo mostrato il giusto spirito, non abbiamo mai mollato nei momenti di difficoltà e questo è l’aspetto più importante della gara”. Rispetto alla partita di Torino e alla replica della scorsa settimana in Scozia, si può tranquillamente parlare di un’altra Italia. Nell’approccio, nella vis pugnandi, nella voglia di sporcare il breakdown e le mani, in mischia ordinata e nella fisicità in giro per il campo.
Eravamo i più scarsi del mondo prima? No. Siamo i più forti adesso? Nemmeno. Di errori ce ne sono stati, dal buco di Williams su un Garcia peraltro sempre consistente in difesa e come primo carrier nei minuti giocati, ai calci di punizione non necessari concessi in pieni nostri 22 e che ci sono di fatto costati la partita (sostegno per le terre nel primo tempo e tagliafuori di Gori nel secondo, cose che al Mondiale non possiamo permetterci). Ma vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto è sintomo di mala fede e in questo caso non renderebbe giustizia dell’enorme sforzo messo in campo dagli Azzurri, per di più dopo una settimana in cui le critiche non sono state, giustamente, risparmiate.
Alcune brevi statistiche non possono che confermare le sensazioni provate a caldo. Rispetto a Murrayfield abbiamo placcato meglio (90% contro l’ 86% di tackle vittoriosi), vinto più mischie su nostro ingaggio (5 su 9 una settimana fa, 8 su 10 al Millennium), e agito meglio palla in mano (buchi profondi 4-2, difensori battuti 15-6, metri corsi 301-174). Su tutti questi dati è bene fare la tara col fatto che in Scozia abbiamo avuto molti meno possessi, soprattutto se pensiamo che a gioco fermo abbiamo calciato il doppio. Resta il fatto che anche al piede Gori, Allan e Canna hanno fatto bene: il primo portando kick dalla base sempre contestabili e contestati, il secondo cercando e trovando in più occasioni il guadagno territoriale e la touche sotto enorme pressione, il terzo mettendo un drop al Millennium (venendo da una stagione di Eccellenza) e dimostrando buone mani nella distribuzione. Ma cosa è cambiato nella testa dei giocatori?
Il primo nome da fare è quello di Sergio Parisse. Con il nostro capitano in campo siamo stati (e spesso siamo) un’altra squadra, e c’è poco da discutere. La leadership nel rugby la si vede dall’esempio e dai piccoli gesti. L’esempio è stato dato in 65 minuti di profonda maestria, con tante cose eseguite sempre in modo impeccabile, dal gioco aereo all’uscita da fermo dal frontale; i gesti, una pacca sulla spalla e una parola sussurrata, piccole cose che fatte da un giocatore come lui fanno un’enorme differenza.
E non siamo certo noi l’anomalia: grandi squadre chiedono grandi leader. Chiedere, per conoscenza, al pack sudafricano di Durban senza Matfield contro l’Argentina. Parisse ha poi l’effetto di “trascinare” gli altri portandoli a performare al meglio. Il problema è il dopo, intanto valga quanto detto da Brunel in conferenza: “E’ importante per noi avere i nostri leader sul campo […] “.
I secondi nomi da fare sono quelli di Geldenhuys e Furno, che hanno sporcato e pulito qualunque punto d’incontro e maul. In questa Italia, due “cagnacci” imprescindibili soprattutto se schierati in coppia assieme (e che si fanno sentire anche in mischia ordinata). Menzione d’onore poi per i 13 placcaggi di Minto, la consistenza di Sarto in entrambe le fasi e la prova in mischia ordinata dopo le difficoltà di Edimburgo.
Dalla panchina, poi, è arrivata benzina ma soprattutto la conferma che un giocatore come Palazzani serve più come impact player nel gioco rotto palla in mano che da mediano di mischia (come peraltro più volte dimostrato alle Zebre), così come Vunisa nell’ultimo quarto per caricare difese più stanche che ad inizio partita.
La via, comunque, è tracciata. C’è chi gioca al 10% e vince, e chi gioca al 100% e perde. Questo non deve essere un limite ma il punto di partenza mentale per costruire ogni futuro successo contro le nazioni del Tier One.
Di Roberto Avesani
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