Tra (non) sorprese, delusioni preventivabili e mine vaganti, siamo arrivati a un giro di boa della Coppa del Mondo
Trenta partite se ne sono andate, i primi verdetti sono arrivati e nonostante al menù iridato manchino ancora le portate più succulenti, sono diverse le indicazioni arrivate dai primi 2.400 minuti della Rugby World Cup 2015. Tra giganti con un piede d’argilla e uno di ferro, sorprese che sorprese non sono e underdog sempre meno under, tracciamo un primo bilancio di quanto visto fino ad oggi.
Italia, siamo sempre lì: una prestazione di carattere e orgoglio da parte degli Azzurri contro l’Irlanda era abbastanza facile da preventivare. Troppe ombre nelle prime due uscite iridate, la necessità di rialzare la testa e il rientro di Parisse hanno dato una spinta decisiva per una prestazione decisamente differente rispetto a quanto fatto vedere contro Francia e Canada. Ma purtroppo, e ancora una volta, solo una volta arrivati alla situazione di chi non ha nulla da perdere abbiamo prodotto una reazione (di testa e di gruppo prima ancora che tecnica e tattica). E questo è un limite che una squadra del Tier One non può certo permettersi di avere. E’ successo l’ultima volta a febbraio nel Sei Nazioni, quando dopo aver espugnato Murrayfield siamo rimasti a zero contro una Francia sbarcata all’Olimpico quasi allo sbando. La lucidità mentale di vincere e convincere nelle partite più facili ancora non l’abbiamo, e paradossalmente (anzi, poco professionalmente) sbagliamo l’approccio mentale.
Per dirla con le parole di Gori, eliminati contro l’Irlanda abbiamo la bava alla bocca, in corsa qualificazione contro il Canada rischiamo (anzi facciamo) figuracce. Ora resta la Romania, l’ultima partita iridata di un gruppo di giocatori (Bergamasco, Masi, forse Castrogiovanni, e mettiamoci pure Parisse) che esattamente dodici anni fa esordiva al Mondiale, e che per quanto hanno dato alla maglia azzurra avrebbero meritato certamente di meglio. Piccola nota a margine: quante volte Furno ha dovuto eseguire in partita il gesto di puntare il piede e mettere la palla in saccoccia schiacciando di prepotenza, o di allungare la manona per appoggiarla? Se in passato avessimo giocato contro le Tier Two certamente di più…
La via nipponica all’alto livello: gli Springboks non si battono per caso, e del perché nel rugby le buone prestazioni non sono un caso già ne abbiamo scritto. La vittoria contro Samoa ha confermato le belle sensazioni, e soprattutto consolidato quale grande allenatore e stratega sia Eddie Jones. La grande capacità del tecnico è stata quella di adattare il piano di gioco ai propri uomini e non viceversa (cosa che si può invece contestare a Lancaster), cucendo addosso ai propri giocatori un modo di giocare perfetto per le loro caratteristiche. In difesa, placcaggi sempre raddoppiati alto/basso per impedire gli offload che un portatore di maggior peso può facilmente trovare se fermato solo alle gambe. Palla in mano, alcuni ball carrier ben dosati e soprattutto ben distribuiti nel campo, che prendono la linea del vantaggio dove e quando ciò è funzionale ad imbastire una manovra in avanzamento. Manovre che hanno costretto la difesa (non impeccabile) di Samoa agli straordinari in giro per il campo, con il risultato di allargare gli spazi nel multifase trovando marcature ben strutturate oltre che esteticamente piacevoli. Tutto ciò, in entrambe le fasi, prevede alcune caratteristiche che ai nipponici non mancano di certo: la disposizione al sacrificio, la capacità (e la lucidità) di sopportare e sostenere manovre superiori al minuto di tempo, ed enormi skills. Per la quantità di possesso avuto, hanno sorpreso i pochi errori palla in mano, la qualità della trasmissione, e la perfetta ball presentation. L’unica cosa che forse manca è l’imprevedibilità, al punto che la capacità di adattarsi/rimediare a certe situazioni ricorda quasi la pallavolo, con Tanaka che i veste di palleggiatore dà senso al gioco riorganizzando il pack anche a costo di rallentare la manovra. Tutto nel gioco di Jones è sotto controllo, tuti sanno cosa fare quasi che si eseguisse uno schema di basket: e questa potrebbe essere la via giapponese al rugby di alto livello.
Il Sudafrica dai due piedi: ma davvero potevamo pensare ad una squadra Springboks così distrutta? Se la squadra di Meyer dovesse trovare sempre l’intensità e la fisicità viste contro Samoa e Scozia, sarà dura, durissima per chiunque. Palla alta e tutti sotto, rolling maul a metà campo, collisioni e pulizia ai trecento: tutto ciò può bastare per vincere i Mondiali. De Jager ed Etzebeth non avranno l’esperienza di Matfield ma garantiscono pignatte e fiato per ottanta minute, Pollard ha ritrovato confidenza e De Allende è un primo centro perfettamente funzionale al gioco di Meyer.
Chi può fermare questo Sudafrica? Non la tenuta fisica, ma quella mentale. Contro la Scozia la squadra ha subito il colpo della meta di Seymour, e per alcuni minuti la sensazione è che il gigante tornasse a scoprire i suoi piedi fragili. Questa è una squadra che prende a testate i muri ed è abituata ad abbatterli, ma se nell’arco degli ottanta minuti si scopre debole vacilla. Contro la Scozia non la si paga, contro le altre molto probabilmente sì. Il Giappone dello stratega Jones ha preso il toro per le corna senza nemmeno dargli il tempo di sfogarsi (di ragionare non si poteva proprio scrivere…).
Inghilterra, la corsa è già finita: pro o anti inglesi che si sia, l’eliminazione della squadra di casa è un peccato nell’economia del torneo. Quattro anni per costruire la squadra, qualcuno di più per mettere in piedi la più imponente Rugby World Cup di sempre, e tutto si sgretola in poco tempo. Dove i padroni di casa l’hanno persa non è contro un’Australia magistrale, ma contro un Galles battibile e battuto fino a dieci minuti dal termine. Il famoso Piano B la cui latitanza è stata tante volte rimproverata a Lancaster, ancora non si è visto. Anzi, la sensazione è che il piano di gioco pensato dal coach inglese mal si adatti agli uomini a disposizione. Muovere l’ovale nella larghezza, attaccare con le gambe di May e con gli offload in mezzo al campo piuttosto che con gli impatti sulla linea di Burgess richiede una cosa che è mancata contro i Wallabies: un sostegno veloce ed efficacie e terze linee che incollino i due reparti. Cose che la terza linea inglese non ha garantito, permettendo alla premiata ditta Hooper-Pocock di scavare rubando possessi importanti. Già ci si chiede quanto sarebbe servito un Armitage: domanda abbastanza inutile, essendo la sua esclusione non una scelta ma una policy, con cui Lancaster ha dovuto fare (probabilmente sbagliandoli) i conti.
Australia, ovvero come arrivare in finale: l’abbiamo sempre detto. Date a quei trequarti una mischia (1-5) e ne vedremo delle belle. E a Twickenham di belle se ne sono viste, come nella splendida seconda meta di Foley: avanzamento, campo e difesa spaccate a metà, almeno quattro opzioni per il numero dieci il cui decision making ha addirittura sorpreso. Foley ha calciato, allargato, fatto sponde interne e corso in prima persona prendendo la decisione migliore. Ma, ripetiamo, è stato il pack a metterlo in queste condizioni, così come Hooper e Pocock sono stati messi nelle condizioni di contendere grazie a placcaggi funzionali al recupero, e grazie al lavoro di una terza a loro perfettamente complementare come Fardy. In mischia chiusa c’è la mano di Ledesma, i trequarti hanno capacità e versatilità da vendere. Occhio a questi Wallabies, che andranno lontano.
Georgia, Canada & Co: i tempi dei 142-0 potrebbero essere finiti. Se alla RWC 2003 il punteggio medio nella fase a Gironi era di 49-13, si è passati al 39-13 dei primi 20 match della corrente edizione con una consistente riduzione del gap, il numero di mete è passato da 7.5 a meno di 6, e per ora solo Australia-Uruguay è finita con almeno 50 punti di scarto (nel 2011 erano 8, nel 2007 9 e nel 2003 11). L’innalzamento del livello è certamente un fatto positivo per tutto il rugby, e ciò fa ben sperare perché ad emergere sono paesi come Stati Uniti, Canada e Giappone, in cui finanziamenti, bacino e sostegno politico non mancano di certo. Ma quello che sorprende è l’attitudine mentale dei giocatori. Dovessero arrivare skills, competenze tecniche e (iper)fisici, il gap potrebbe chiudersi ulteriormente.
Chi potrebbe uscire con le ossa rotte sono invece le isolane: vuoi per il girone difficile (Fiji) o per problemi interni (Samoa), ma probabilmente qualcuno alzerà la voce su giocatori “scippati” e calendario sfavorevole.
Arbitri: a qualcuno dei direttori di gara saranno venuti dei crampi per dover sempre correre con il braccio del vantaggio alzato, ma ben venga l’attenzione sul fuorigioco delle difese. Bene anche le decisioni sulle contese aeree, che sembrano finalmente essere state risolte (almeno a questi livelli, vedremo in Pro12…), e le pulizie con la spalla sul breakdown. Anche l’uso smodato del TMO sembra essersi placato rispetto alle prime partite. E’ lecito pensare che i prossimi interventi a livello di regolamento riguarderanno la maul, dove il confine tra cosa sanzionare e cosa tollerare è spesso in bilico.
Di Roberto Avesani
Cari Lettori,
OnRugby, da oltre 10 anni, Vi offre gratuitamente un’informazione puntuale e quotidiana sul mondo della palla ovale. Il nostro lavoro ha un costo che viene ripagato dalla pubblicità, in particolare quella personalizzata.
Quando Vi viene proposta l’informativa sul rilascio di cookie o tecnologie simili, Vi chiediamo di sostenerci dando il Vostro consenso.