Contributi internazionali, una benzina che non sappiamo sfruttare al meglio

L’Italia da quando è nel Sei Nazioni ha ricevuto grossi finanziamenti. Altri no, ma crescono più di noi

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

“Anche ammesso che davvero in Italia non ci sia nessuno che possa sostituire Franco Ascione la domanda da porsi è un’altra: i principi, la filosofia e le decisioni prese e applicate hanno portato risultati tangibili e positivi? C’è differenza tra il movimento Italia nel biennio 2007-2008 (per fare un esempio) e quello attuale? C’è stata una crescita? E l’eventuale crescita, anche qui ammesso e non concesso che ci sia stata, è commisurata alle risorse economiche investite? Gli obiettivi raggiunti sono in linea con quanto pianificato? Una federazione-azienda dovrebbe rispondere a domande così, che valgono per Franco Ascione o chiunque vada ad occupare qual ruolo, fosse pure Graham Henry, Harry Potter o Paolo Wilhelm”.

 

Questo lo scrivevamo lo scorso 22 ottobre, un paio di giorni dopo l’incontro del presidente federale Alfredo Gavazzi con la stampa a Milano, prendendo spunto dalla dichiarazione che recitava più o meno così: “sul lato tecnico in Italia non c’è una persona che possa sostituire Franco Ascione”.
Torniamo sulla frase sopra riportata non per occuparci nuovamente di chi da una quindicina d’anni guida il rugby italiano sotto l’aspetto tecnico, ma per l’accenno alle risorse economiche.
Perché non va dimenticato che l’Italia è nel club dei “grandi” di Ovalia, si può sedere a tavoli che ad alti sono preclusi, almeno per il momento, e che da quando 15 anni fa è entrata nel Sei Nazioni può accedere a finanziamenti e a contributi importanti. Tra board internazionale (IRB prima e World Rugby oggi) e quello del torneo europeo più importante quantificarli non è una impresa semplice e non è forse nemmeno così determinante, perché alla fine il vero discrimine non è se nelle nostre casse sono entrati in questi anni 10, 50, 70 o 100 milioni di euro, ma il fatto che noi quei soldi li abbiamo avuti, tanti altri no. E ora alcuni di loro ci guardano dall’alto verso il basso nel ranking mondiale, che sarà pure una classifica che lascia un po’ il tempo che trova ma che una qualche idea piuttosto precisa dello stato di salute della varie nazionali comunque la dà.

 

Giappone e Argentina, ad esempio. I sudamericani contributi di una certa consistenza hanno comunciato a vederli da quando sono entrati nel Rugby Championship, ovvero l’altro ieri. Ancora meno ne ha visti il Giappone che però – va detto – può contare su una solidità economica della base (almeno a livello di Top League e seconda divisione) davvero importante grazie al coinvolgimento in prima persona di multinazionali e grandi gruppi.
Ci sono poi gli esempi di chi ci sta ancora dietro ma che negli ultimi anni ha fatto passi importanti e si sta avvicinando a noi: Canada, USA, Georgia. Si dirà che quantomeno i due paesi nordamericani sono ricchi di loro – che è vero – ma non è che l’Italia sia nel terzo mondo, pur con tutte le sue difficoltà degli ultimi anni.
Il fatto è che avere i soldi aiuta ma non basta di per sé a crescere, a migliorarsi. Se così fosse l’Inghilterra sarebbe sul tetto del mondo… da sempre. E’ di gran lunga la federazione più ricca, seguita da quella francese, però a guidare Ovalia da tanti anni sono le Unions dell’emisfero sud (Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica) che certo povere non sono ma non hanno nemmeno i soldi su cui possono contare a Parigi o Londra. Eppure.

 

I soldi servono dicevamo, ma alla fine a pesare sui risultati sono le scelte “politiche” e “filosofiche” che vengono fatte. E qui entra in scena la capacità e la preparazione della classe dirigente, aspetto di cui quasi nessuno parla (noi, a dirla tutta lo avevamo fatto poco più di un anno fa, quando abbiamo scritto questo il 17 ottobre 2014).
All’incontro di Milano di cui abbiamo parlato all’inizio OnRugby ha posto la questione della relazione sui risultati ottenuti a fronte anche dei diversi contributi su cui possono contare le varie federazioni al presidente Gavazzi, che però ha risposto ribadendo la diversità della nostra realtà con quella argentina e giapponese. Che non sono sicuramente la stessa cosa, nessuno lo pensa, ma va comunque sottolineato che i soldi che noi abbiamo ricevuto (e a World Rugby ne abbiamo chiesti altri per “lo sviluppo del rugby” con l’intenzione di girarli al board celtico per coprire la cosiddetta tassa d’ingresso) negli ultimi 15 anni loro non li hanno avuti. Però il loro trend di crescita è sicuramente più duraturo e robusto del nostro.

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