Torna in libreria, con una versione aggiornata e arricchita, un volume che ci porta alla scoperta di un grande italiano
“Rivera, Mazzola, Thoeni e Mennea, gente da 60 chili non di più, gente che se gli dai una sberla pirlano in giro per un quarto d’ora, se ne sono andati incastonati in benemerenze, rappresentanze, ovazioni, giubilei. Lui, sarà che è grande grosso (97 chili per 1,85), dopo 25 anni di botte, ha rimediato una medaglia (non più di 30mila lire) e un grazie tanto tradotto in 10 righe sui quotidiani sportivi di questo Paese di sedentari”.
Basterebbero queste otto righe dedicate a Marco Bollesan per assegnargli il titolo di “man of the match”, conferirgli la William Webb Ellis Cup del giornalismo e invitarlo a un terzo tempo come si deve da Cabrio. Beppe Viola aveva studiato biliardo, si occupava di calcio, giocava ai cavalli, scriveva anche film e canzoni, avrebbe potuto farlo – magari con eguale competenza no ma con effetto sì – anche di dressage e curling, sul niente sarebbe stato capace di tutto, macchina per scrivere e sigaretta, insomma era un fuoriclasse, e chissà che cosa avrebbe inventato immaginato fantasticato liberato improvvisato sul rugby.
Pensate a un pezzo su Memo Geremia, a un’intervista a Martin Castrogiovanni, a un ritratto del presidente Gavazzi, a una giornata con Sergio Parisse, a una gita in un’osteria con Tana Umaga.
Se ne riparla perché è stato ripubblicato “Vite vere compresa la mia” (Quodlibet, 288 pagine, 17 euro, con sette pezzi in più e le inedite prefazione di Stefano Bartezzaghi e postfazione di Gino Cervi), un classico fra sport e giornalismo, in un mondo – Milano anni Settanta e Ottanta – che non c’è più, o forse sì, però scavando, recuperando, salvando.
Beppe Viola aveva il dono dell’ironia, osava mandare tutto in vacca, detestava i luoghi comuni, ignorava le regole di comportamento, a cominciare da veline e raccomandazioni, manfrine e lisciate, ma osservava delle sue regole esistenziali e professionali anche rigide. Smarchettava, ma alla grande, con classe, con eleganza, con dignità, passando dalla stanzetta della Rai cui era relegato con altri dimenticati, ed elargiva piccoli tesori letterari passando dall’”Uomo Vogue” all’”Intrepido”, dal “Giorno” a “Linus”, percorrendo avanti e indietro l’intero arco costituzionale del cartaceo. Bastava dargli carta bianca. E non avrebbe fatto sconti, come si è visto, a nessuno, neanche a Gianni Rivera, cui avrebbe dato (e forse l’ha anche data) l’anima.
A distanza di 34 anni dalla prima edizione e di 33 dall’ultimo respiro – fra pressione e colesterolo, era una bella gara di salto in alto -, Beppe Viola è ancora all’avanguardia, e a questo punto è da considerarsi irripetibile inimitabile irraggiungibile. Con quella sua faccia da Altan: bello proprio no, eppure così simpatico, sciolto, imprevedibile e perfino modesto, così vulnerabile e pasquale, che alla fine non potevi non volergli bene, o al limite innamorartene. Perché Beppe Viola era ovale.
di Marco Pastonesi
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