Si formano più giocatori a Rovigo, Calvisano o Padova? Una domanda che impazza nei forum ma che è mal calibrata
Ma da quanto è che Rovigo non “produce” un giocatore che finisce in nazionale? E perchè, Viadana forse ne ha avuti tanti di azzuri? Sì, ma vogliamo parlare di Calvisano, che prende giocatori costruiti da altri, li fa giocare una stagione o due e poi li spaccia come “fomati dal Calvisano”?
Potremmo andare avanti con altri esempi, ma frasi e domande come quelle sopra riportate si trovano sui forum, nei siti, nei blog e nelle pagine dei più diversi social network che si occupano di cose ovali. Nessuna è campata per aria del tutto e le sfumatutre sono diverse.
Però il punto forse è un altro e dovremmo probabilmente farci un’altra domanda, che ci porta a cercare una visuale un po’ più ampia dei singoli cortili e campanili. Forse dovremmo chiederci: esiste oggi in Italia una “scuola”, una società, in grado di sfornare con continuità giocatori di livello, che possono ambire alla nazionale? La risposta che dovremmo darci è verosimilmente no.
La nostra idea iniziale era di quella di stilare una sorta di guida – più o meno ragionata – alla formazione del gruppo azzurro. E con la parola “formazione” intesa come una mappa del dove, in quali club, si sono formati i giocatori della nostra nazionale che hanno preso parte al recente Mondiale inglese.
Il primo scoglio è stato quello di quali paletti anagrafici mettere: l’arco tra i 14 e i 20 anni è quello che ci sembrava più sensato ma forse poco adatto alla realtà italiana. Andrebbe probabilmente bene per gran parte dei paesi oggi rugbisticamente evoluti, ma i nostri giocatori arrivano più “lunghi”, hanno bisogno di più tempo. In teoria all’uscita dalle Accademie dovremmo avere dei giocatori quasi fatti e finiti, ma non è così. Anzi.
La responsabilità è in parte delle stesse Accademie, in parte dei club di origine. E proprio analizzando quest’ultimo aspetto, ci siamo resi conto che mettere delle X accanto alle caselle dei giocatori con i nomi delle società non ha molto senso perché è lampante che la maggioranza dei nostri migliori atleti arriva dal Veneto e dalla Lombardia perché queste sono le due regioni a più alto tasso rugbistico del nostro paese, ma che parlare di scuole è comunque un po’ troppo ottimistico.
Il problema è che a non funzionare, e non da oggi, è un po’ tutta la filiera. Se vogliamo fare gli ultras possiamo dare la colpa alle società o alla FIR a seconda della parte della barricata da cui decidiamo di vedere le cose, ma se da un lato è evidente che la Federazione non ha gestito al meglio il movimento negli ultimi 15 anni (lo dicono i risultati del campo, non OnRugby) dall’altro va detto che anche le società non hanno saputo mantenere lo standard che avevano ad esempio avuto negli anni ’90.
I perché e i per come sono tanti, i responsabili sono diversi e la caccia all’untore non è il nostro sport preferito, certo ci piacerebbe vedere una maggiore connessione tra assegnazione dei ruoli-chiave e i risultati poi ottenuti, quantomeno a livello federale.
Un ex tecnico di livello, in una chiacchierata a microfoni spenti, ci ha detto che “cercare di fare il panorama della formazione in Italia oggi lascia un po’ il tempo che trova. I talenti escono da un club o da un altro un po’ per caso, come i funghi, non sono figli di una vera e propria programmazione. Ci sono società che lavorano meglio di altre ma ogni annata ha un po’ una storia a sé. La verità è che oggi avviene tutto per caso”. Giocatori che rimangono poi grezzi per qualche anno in più rispetto ai nostri avvresari del Sei Nazioni, che arrivano a maturazione più tardi, con skills incomplete anche nei nostri migliori rappresentanti.
La soluzione che per magia fa invertire la rotta non esiste: noi continuiamo a pensare – come abbiamo più volte scritto – che un sistema misto Accademie/Club sia la cosa migliore, con le prime che però andrebbero ridotte numericamente per non andare a creare una inutile e poco fruttuosa concorrenza alle società nelle aree più avanzate rugbisticamente, mentre potrebbero rivelarsi utilissime nelle regioni “di confine”, dove il nostro movimento è più in sofferenza. Al contempo bisognerebbe dare il via a un piano di “formazione dei formatori”. E non aspettiamoci risultati nel breve e medio termine
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