Marco Pastonesi, dopo il ricordo di Bona, raccoglie la testimonianza di Pietro Monfeli sul pilone scomparso pochi giorni fa
Lunedì scorso è morto Anacleto Altigieri, pilone sinistro, 27 “caps” con la Nazionale. Altigieri Paoletti Bona equivaleva al Sarti Burgnich Facchetti: il primo respiro di una formazione, ma anche di una storia e di una grammatica, di una preghiera o di una minaccia. Altigieri rappresentava, interpretava, era anche un rugby: né migliore né peggiore, ma certamente diverso da quello di oggi. Questa è la seconda puntata di un breve viaggio in quel rugby, nel rugby di quell’epoca, e di quei valori
Due strade diverse, ma parallele. Una strada sterrata, di campagna, che sapeva di vento e di trattorie, l’altra nata sterrata, di campagna, e poi asfaltata, di città, che sapeva anche di uffici e di bar. Due strade diverse, ma parallele, le vite parallele ma convergenti di Anacleto Altigieri e Pietro Monfeli, pilone e tallonatore, compagni e avversari, amici e fratelli.
Pietro ricorda di aver incontrato Anacleto ai campionati studenteschi: “Lui grande e grosso, biondo e robusto, io meno. Lui all’Itis di Viterbo, io al Geometri di Viterbo. Lui di Oriolo Romano, io di Fabrica. Lui sarebbe potuto venire dall’Iliade o dall’Odissea, io dall’atletica, lancio del giavellotto, e dal baseball, lanciatore e ‘catcher’. Insomma, lui aveva due spalle così, io una sola. Poi lasciai il giavellotto perché mi avevano diagnosticato che, più di tanto, non sarei cresciuto, e nel giavellotto bisogna avere le leve lunghe, e poi lasciai anche il baseball, perché i miei amici giocavano a rugby. Andò così: un giorno, dopo l’allenamento di baseball, mi feci convincere ad andare anche a quello di rugby, non mi spiegarono neanche le regole, si giocò subito una partitella, presi un sacco di botte, pensai, anzi, glielo dissi, voi siete tutti matti, e giurai di non tornarci più. Solo allora quelli mi rivelarono un segreto importantissimo: guarda che le botte si pigliano, ma si possono anche dare. Allora ci ripensai: se riesco a restituirne solo un po’ di tutte quelle che ho incassato, probabilmente mi diverto anch’io. E fu così”.
Pietro dice di aver conosciuto Anacleto nel Rugby Viterbo: “Agli studenteschi gli chiesi di venire a giocare con noi, e lui venne. Il Viterbo era nato nel 1952, nel 1962 fu campione d’Italia di serie B, disputava le partite nello stadio comunale dividendolo con quelli del calcio e del baseball, certi giocatori – Gatto, La Rosa, anch’io – entrarono nel giro della Nazionale. E la nostra prima linea faceva danni: Altigieri-Monfeli-Bruni. Anacleto aveva una forza sovrumana, Sandro era stato campione italiano nel sollevamento pesi e mondiale nel braccio di ferro, e con loro io vivevo di rendita. Una volta, all’Acqua Acetosa, quando il no contest non esisteva, ma le testate sì, i piloni della Lazio passavano da una parte all’altra, cadendo dalla padella alla brace, finché si rifiutarono di giocare contro di noi”.
Pietro racconta di aver ritrovato Anacleto a Padova: “Insieme, nelle Fiamme Oro. La partita d’esordio a Rovigo: Anacleto aveva, davanti a sé, Zuin padre, un pilone internazionale, esperto e cattivo. Come si diceva a quel tempo, i piloni, quando muoiono, vanno in paradiso, perché l’inferno lo hanno già vissuto su questa terra. Anacleto e Zuin ingaggiarono una sfida, una lotta, un duello, una battaglia, una guerra personale: non sapevano neanche come e dove, con chi e contro chi avessero giocato, né tantomeno chi avesse vinto o perso, perché era stato soltanto un confronto di testate e trucchi, di forza e tecnica, di malizie ed energie fra loro due. Alla fine della partita, Zuin padre andò da Anacleto e gli giurò: ‘Bocia, ti te farai strada’”.
Pietro sostiene che di strada, sterrata e asfaltata, nazionale e internazionale, ne hanno fatta parecchia insieme: “Quando stavamo alle Fiamme Oro, alle 18 apriva la mensa, e noi eravamo lì, mangiavamo e uscivamo, magari con le ragazze, e si mangiava qualcosa, alle 22 o alle 23, prima di rientrare in caserma, si faceva un salto alla trattoria Giaba, e si mangiava qualcos’altro. Una volta da Giaba arrivammo in tre: io, Anacleto e Presutti. C’è qualcosa?, domandammo. Non è rimasto più niente, ci risposero. Poi aggiunsero: solo spezzatino e polenta, ma sono per domani. Controllammo: tre o quattro chili di spezzatino e un tagliere di polenta. Il loro errore fu di lasciarci soli. Perché quando tornarono, avevamo ripulito spezzatino e polenta. Ma che avete fatto?, ci chiesero, sbigottiti. ‘Amo magnato’. E quella volta a Padova, dalle parti di Prato della Valle, in macchina, io al volante, Anacleto accanto, il semaforo giallo, gli dissi di tenersi forte, accelerai e passai con il rosso, poi un botto e la macchina che girò due o tre volte su se stessa. Quando la macchina si fermò, Anacleto mi chiese se mi fossi fatto male. No, lo rassicurai. Allora mo’ te faccio male io, annunciò, mi riempì di cazzotti e quello che non era successo con il giavellotto, con il baseball e soprattutto con il rugby, lo fece lui: mezza spalla rotta”.
Pietro spiega che, ad Anacleto, “nun je dovevi rompe’ li cojoni. Treviso, Metalcrom-Roma, io nel Metalcrom, Anacleto nella Roma. Nel Metalcrom, quella domenica, esordiva Guido Rossi. Grande e grosso, un’altra forza della natura, famoso perché quando gli dicevano che aveva due spalle rubate all’agricoltura, lui ribatteva che non era vero, perché lui era un contadino. Ma Rossi aveva, sì e no, 17 anni. L’allenatore lo sistemò contro Bona. Intervenni io: ‘Voi siete matti’. E spiegai che “Bona, appena si accorge di avere davanti un esordiente, con tutti i suoi trucchi lo distrugge, lo fa a pezzi, se lo magna’. Conclusi: ‘Meglio Altigieri’. E aggiunsi: ‘A Rossi ci penso io’. Infatti presi Rossi e lo catechizzai: ‘Se vuoi finire la partita, ad Altigieri nun je devi rompe’ li cojoni. Non fare niente di più e niente di meno di quello che devi fare: tieni, e basta. Rossi così ha fatto. E così è uscito dal campo sano e salvo, vivo e rispettato. Se solo avesse provato a fare la guerra, sarebbe morto. Anacleto poteva sembrare un selvaggio, ma non era mai lui a cominciare. Perché era un orso, ma gentile, era un vichingo, ma artista”.
di Marco Pastonesi
La puntata precedente: “Bona ricorda Altigieri”
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