Il percorso di Marco Pastonesi finisce ad Oriolo Romano. Da dove Bargelli assicura: “E’ morto da pilone”
Lunedì scorso è morto Anacleto Altigieri, pilone sinistro, 27 “caps” con la Nazionale. Altigieri Paoletti Bona equivaleva al Sarti Burgnich Facchetti: il primo respiro di una formazione, ma anche di una storia e di una grammatica, di una preghiera o di una minaccia. Altigieri rappresentava, interpretava, era anche un rugby: né migliore né peggiore, ma certamente diverso da quello di oggi. Questa è la sesta e ultima puntata di un breve viaggio in quel rugby, nel rugby di quell’epoca e di quei valori.
L’ultima partita l’ha giocata in casa. Oriolo Romano: 3800 abitanti, il Palazzo Altieri, il parco della Mola, la squadra di rugby, la Chiesa di San Giorgio. Nella Chiesa, piena, la famiglia, i compagni, gli amici, e i fiori, le preghiere, i canti, e i riti, le letture, i discorsi. Anacleto aveva 66 anni e non era più quella “roccia” né quella “diga” raccontata da Paolo Rosi, non possedeva più quella forza sovrumana cantata da Pietro Monfeli, non vantava più quella velocità che gli avversari non potevano neppure sospettare in un uomo da trincea. Le battaglie in mischia gli avevano scolpito cicatrici, lasciato acciacchi, consumato giunture. Al resto ci avevano pensato diagnosi approssimative e operazioni imperfette. Forse anche Anacleto si era trascurato, convinto – lui abituato sul campo a dare, non a ricevere – che chiedere fosse un segno di debolezza, un’ammissione di inferiorità, il sintomo di una sconfitta. Dolori, infiltrazioni, infezioni, infiammazioni. Chissà. Prima le gambe, poi la schiena. Chissà. Solo adesso Anacleto si era arreso alle premure di Monfeli e Pierluigi Camiscioni, Attilio Rota e Maurizio Finocchi, ed era finalmente stato fissato l’appuntamento da uno specialista in reumatologia, a Iesi. Ma il fischio finale della sua partita è giunto prima d’interrompere il gioco e chiedere l’intervento dei medici. Inevitabile in uno che, da sempre, non aveva – e non avrebbe – mai chiesto niente a nessuno. A costo di morirci. “Anacleto – ha commentato Franco Bargelli, uno che non ha mai fatto sconti – è morto da pilone”.
Tante facce da rugby, prima in piazza e poi in chiesa e poi nei bar, fra ricordi e racconti e rimpianti. Quelli dell’Oriolo, quelli del Montevirginio, quelli del Viterbo, quelli dell’Old Rugby Tasci Falisci, quelli della Rugby Roma, quelli dell’Aquila, quelli delle Fiamme Oro, quelli della Nazionale, quelli della Federazione, quelli del rugby. Il rugby come un modo di essere, quando essere significa avere. Il rugby anche come un modo di stare al mondo, quando stare vuole dire sostenere. Al di là delle prodezze, delle presenze, dei titoli. Una questione di spirito. Quello spirito che, infine, rimane.
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Così finisce il nostro terzo tempo per Anacleto, lungo sei giorni e sei racconti. E se è stata privilegiata la commedia umana vissuta nelle camere, sui pullman, a tavola, piuttosto che la divina commedia scritta sui campi, già custodita nelle cronache e depositata negli annali, è perché è quella umana che più ci rimane intorno, addosso, dentro, anche quando è un po’ dura o rude. Non è facile scoprirla, ma spesso c’è una carezza in un pugno. Come nella canzone di Adriano Celentano. Come nella vita di Anacleto Altigieri.
Di Marco Pastonesi
La prima puntata: “Bona ricorda Altigieri”
La seconda puntata: “Monfeli ricorda Altigieri”
La terza puntata: “Altigieri nelle memorie di Camiscioni”
La quarta puntata: “Campi, bar e “crognolini”: con Cemicetti nel rugby che non c’è più”
La quinta puntata: “Ancleto Altigieri, uno Zibaldone di ricordi”
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