Il capitano azzurro si racconta a OnRugby. Tra professionismo, scelta celtica, accademie e molto altro
Sergio Parisse non ha certo bisogno di presentazioni. Leader indiscusso dentro e fuori del campo sia della nazionale italiana, di cui ha indossato la maglia in 114 occasioni dal 2002 ad oggi, che dello Stade Francais, suo club nelle ultime dieci stagioni, il capitano grazie alle sue prestazioni e ad un’etica del lavoro di primo livello ha saputo costruirsi una solidissima reputazione per tutta Ovalia, dove è stimato da tifosi e colleghi di ogni paese. Quarto miglior giocatore all time del Sei Nazioni per il Guardian, quattordicesimo per il Telegraph tra tutti quelli tutt’oggi in attività, più volte nella short list come miglior giocatore al mondo (2008 e 2013), fino alla candidatura come miglior giocatore del Top14 2014/2015 che verrà annunciato proprio questa sera lunedì 18 gennaio nel corso della dodicesima Nuit du Rugby. Alla vigilia delle convocazioni azzurre per il prossimo Sei Nazioni, che verranno rese note da coach Brunel martedì 19 gennaio, abbiamo intervistato il numero otto azzurro. Una lunga chiacchierata in cui Parisse ripercorre gli anni in Francia e quelli in Nazionale, toccando argomenti di estrema attualità come l’ultimo Mondiale, la questione premi per la quale invoca chiarezza e la scelta di puntare su Pro12 e Accademie, di cui ha un’idea molto precisa.
Dopo il successo dello scorso anno, la stagione dello Stade Francais è iniziata in modo difficile. Vero che è l’anno dei Mondiali, ma il Top14 si dimostra imprevedibile, come la scorsa stagione a Castres…
Vero, la stagione non è iniziata al meglio. La Coppa del Mondo ha fatto sì che tanti giocatori iniziassero tardi con il club, nelle prime partite abbiamo schierato tantissimi giovani. Il Top14 è un campionato tosto, Castres ha rischiato la retrocessione la stagione dopo il titolo. L’obiettivo resta il sesto posto, l’ultima vittoria con Tolosa ha dato fiducia. In Coppa abbiamo fatto bene contro Munster all’andata e Treviso e siamo ancora in corsa. Certo l’ultima in casa contro Leicester sarà molto importante.
L’arrivo di molti stranieri ha in parte snaturato il Top14 e il gioco di molte squadre?
Ci sono tanti giocatori dell’Emisfero Sud ed è un dato di fatto. Si tratta spesso di individualità molto forti e la nazionale francese e in generale il movimento devono adattarsi a questa situazione. Non è certo la cosa migliore per la nazionale, per il suo DNA e per il suo gioco. Comunque c’è una nuova generazione di trequarti molto forte, in club come Tolosa e lo Stade Francais i giovani francesi hanno molto spazio.
Hai rinnovato da poco, legandoti per altre quattro stagioni al club parigino. Una scelta di cuore e le offerte non mancheranno di certo…
Ho sposato una città e un club. In passato, soprattutto in stagioni in cui con lo Stade soffrivamo parecchio, avrei potuto proseguire la carriera con società sportivamente ed economicamente parlando più interessanti dal mio punto di vista di giocatore. Ma ho deciso di legarmi a vita a questo club: qui ho iniziato la mia vera carriera professionistica, qui sono cresciuto come giocatore ma anche come uomo. Non posso negare che l’aspetto economico non abbia influito sulla mia scelta: ha avuto uno spazio sì importante sulla bilancia, ma non quanto quello sentimentale, che è stato certamente maggiore.
Molti giocatori scelgono anche un esperienza nell’Emisfero Sud o in Giappone. Ci hai pensato?
Ho valutato tante possibilità, anche quella di dividere una stagione in due parti, prima in Giappone e poi in una franchigia dell’Emisfero Sud. Con il paese nipponico sarebbe stata una questione legata piuttosto all’aspetto economico, anche se quel movimento sta crescendo nel modo giusto. Nel Super Rugby sarebbe stata invece una scelta sportivamente molto stimolante, ma ho deciso di legarmi allo Stade Francais. Con la società sono sempre stato chiaro e corretto, non ho chiesto clausole per parentesi lontane dalla Francia e per i prossimi quattro anni indosserò questa maglia.
La scorsa settimana hai twittato una foto assieme all’Under 15 dello Stade Francais. C’è un progetto condiviso?
Abbiamo avviato un lavoro e alcuni giocatori della Prima Squadra fanno delle sedute di allenamento coi ragazzi delle giovanili divisi per ruoli. I tallonatori lanciano, le prime linee ingaggiano….Cerchiamo di creare coordinamento tecnico e identità. L’obiettivo di questi ragazzi è arrivare in Prima Squadra, lavorare assieme a noi crea un forte senso di appartenenza anche a livello psicologico. C’è tanta determinazione in loro, ma anche in noi “grandi” che vogliamo aiutarli a raggiungere il loro obiettivo.
C’è anche un coordinamento tecnico, per facilitare un eventuale inserimento?
Certamente. Le chiamate in touche, i movimenti e i lanci da prima fase hanno lo stesso nome. Certo magari sono più semplificati, ma si lavora con lo stesso sistema di gioco dalla Prima Squadra in giù. Poi quando un espoirs arriva in Prima Squadra già ha familiarità con il piano di gioco.
Passiamo alla Nazionale. Dopo un Mondiale ancora senza quarti, con diversi giocatori prossimi al ritiro e con Jacques Brunel all’ultima esperienza in azzurro, che Sei Nazioni ci aspetta?
Ogni anno si dice che sarà difficile ed è così, anche perché quest’anno ci sono tre trasferte. Un gruppo di giocatori non ci sarà per infortunio e ci sarà la possibilità per alcuni di iniziare ad esplorare il livello internazionale. Con Jacques Brunel abbiamo fatto un percorso di quattro anni, da parte sua la volontà è di finire in modo positivo. Per noi giocatori sarà fondamentale trovare stimoli a livello mentale e motivazioni importanti. Quando hai lavorato per tanto tempo con la stessa impostazione e lo stesso sistema c’è bisogno di rinnovarsi, di trovare nuovi stimoli e motivazioni. Nel prossimo raduno ci saremo anche noi giocatori che militiamo all’estero, dobbiamo trovare con lo staff e la squadra un sistema che ci permetta di fare cinque settimane con il piacere di stare assieme giocando al massimo.
Come hai visto il gruppo dal punto di vista del morale dopo la RWC?
Il Mondiale è un percorso lungo con una preparazione intensa e questa volta abbiamo passato più tempo assieme che nella preparazione del 2011. Alla fine del torneo c’è stress fisico e mentale, non qualificarsi è stata una delusione perché quello era l’obiettivo. Abbiamo centrato il traguardo minimo, ma non possiamo ritenerci soddisfatti. La delusione c’è, ma ormai va messa alle spalle e il Sei Nazioni dà la possibilità al gruppo iridato di rigiocare e dimostrare che merita la maglia della Nazionale.
Come è stata vissuta dal gruppo la non convocazione di Mauro Bergamasco contro la Romania? Professionismo e sentimento sono conciliabili?
Il sentimento c’è sempre in ognuno di noi. Poi certamente siamo professionisti e accettiamo anche quando non siamo d’accordo facendolo senza polemica. Di certo Mauro ha un peso importante e a livello umano c’è stato grande dispiacere in tutti noi. Mauro nel gruppo è sempre solare, sorride, rende il clima positivo. Ha fatto una carriera incredibile e leggergli addosso la delusione ha dato un dispiacere proprio a livello affettivo. La squadra ha avvertito questo dispiacere, credo che tutti noi giocatori avremmo voluto essere in campo assieme a lui nella sua ultima partita, ma le cose sono andate diversamente e le scelte vanno rispettate.
Vi siete confrontati in quell’occasione?
Ci sono stati momenti di incontro, abbiamo parlato, come potrebbero parlare due uomini e non due giocatori. Credo abbia reagito in modo molto professionale, magari qualcun altro avrebbe potuto avere una reazione diversa. L’ha gestita molto bene.
Prima del Mondiale hai dovuto anche affrontare la questione premi. La federazione francese ha appena annunciato un sistema “misto” con gettone al minimo e premi maggiori per i risultati. E’ una via percorribile anche da noi?
Noi tutti siamo d’accordo con un sistema di meritocrazia, che però ha senso partendo da basi accettabili. Un Mondiale significa quattro mesi lontano da casa, richiede un grande sforzo fisico e mentale. Vero che va premiato il risultato, ma non si può pensare che dopo quattro mesi di lavoro, se non si raggiunge l’obbiettivo di qualificazione ai quarti, si dica alla squadra “arrivederci e grazie”. Inoltre se la squadra vince o perde non sono solo i giocatori a dover far parte di un sistema di meritocrazia ma tutto il sistema che lavora da e intorno alla squadra …staff tecnico, staff medico, manager etc…visto che si vince e si perde insieme, ma questa ipotesi non è stata mai nemmeno presa in considerazione, ci vuole coerenza. Il sistema francese, credo sia una strada che ha senso in competizioni come Sei Nazioni, tournée di giugno e novembre, ma per un Mondiale ci sono tanti altri aspetti da valutare. Il primo è riconoscere i nostri sforzi in considerazione del fatto che un Mondiale tra preparazione, amichevoli e la competizione in sé dura quattro mesi.
Si pensa solo al Mondiale in sé, ma poi c’è una stagione da terminare…
La Coppa del Mondo ha degli strascichi, fisicamente e mentalmente richiede il massimo delle energie e la stagione successiva è particolare. Sono quattro mesi intensissimi, in cui sei sempre all’apice.
Durante le trattative con la FIR, oltre a GIRA vi siete confrontati anche con l’International Rugby Players’ Association?
Durante questo percorso abbiamo avuto tanto supporto. GIRA vuole essere un punto di appoggio, vorrebbe aiutare i giocatori non solo durante, ma anche dopo la carriera di giocatore. Abbiamo anche avuto colloqui molto costruttivi con l’IRPA. Ad oggi GIRA è una piccola realtà rispetto ad altre, c’è molto da imparare.
Personalmente in quell’occasione ti sei molto esposto. Come hai vissuto questa parentesi?
Sono il capitano ed è un piacere avere queste responsabilità. Vanno prese in modo positivo e quando mi espongo so che le mie parole hanno un peso e che in Italia se le pronuncio io hanno un significato particolare. Sono il portavoce e preferisco mettermi in prima linea parando anche eventuali critiche. A me non crea problema, mi viene molto naturale farlo.
E’ passata forse l’idea che abbiate condotto una spiccia “battaglia per il grano”. In realtà sul tavolo c’era ben altro.
Purtroppo spesso tutto finisce nella stessa pentola e da lì emergono solo le cose che fanno più polemica. Ad uscirne danneggiato è stato il rugby in sé. Nel momento in cui la discussione è diventata mediatica si è iniziato a parlare di rugby in un modo che non piace né a noi giocatori né alla Federazione e nessuno ne è uscito vincitore. Si è parlato solo di gettoni e questione economica, perché questo fa più rumore. Sul piatto c’era ben altro, questioni ben più importanti come la tutela assicurativa e la salute. Un giocatore ha l’obbligo di pretendere di essere tutelato e quando non c’è chiarezza è normale impuntarsi. Queste certezze sono per noi fondamentali.
Allo Stade Francais hai queste certezze?
Qua c’è un grandissimo rispetto nei confronti dei giocatori, che sono visti come la punta di diamante del club. Ogni persona e professionista che lavora al club ha l’obiettivo di mettere il giocatore nelle migliori condizioni possibili, che si tratti di tutela medica, recupero da un infortunio, ore di recupero post partita, trasferimento, logistica delle trasferte fino a un biglietto per i familiari. Tutto è in funzione della performance e posso dire che qui allo Stade Francais siamo molto avanti da questo punto di vista.
Queste certezze aiutano e influenzano positivamente la tua performance?
Se sei un giocatore meno problemi devi risolvere fuori dal campo e più hai la testa libera per concentrarti. Fare riunioni su argomenti così delicati prima di una Coppa del Mondo non ha aiutato a livello di psicologico. Certo non è assolutamente una scusa o un alibi: quando entriamo in campo siamo noi i primi responsabili se le cose vanno bene o male. Ma ci sono tantissime dinamiche, tutto aiuta la performance della squadra. Se alle spalle c’è un’organizzazione che garantisce e cura queste dinamiche, tutto è facilitato. Poi certo, in campo scendiamo noi giocatori ma le persone attorno possono aiutare.
Da tanti anni sei protagonista del rugby azzurro. Come è cambiato il nostro rugby e perché ancora manca il vero salto di qualità?
Se oggi non siamo tra le prime dieci del ranking i motivi ci sono. Come giocatore ho visto una crescita: ricordo le prime partite del 2003 o 2004, prendevamo più batoste. Negli anni siamo riusciti ad ottenere risultati più importanti, come le vittorie con Francia e Irlanda. Il rugby italiano è cresciuto, ma purtroppo nelle ultime stagioni c’è stato uno stop. Si è scelto di far partecipare due franchigie al torneo celtico e ciò ha portato benefici in termini di qualità: c’era la necessità di confrontarsi durante la stagione con realtà di livello superiore. Non ho vissuto il Pro12 dall’interno, ma parlando con i ragazzi di Zebre e Treviso è un’esperienza positiva a livello rugbistico. Ma tutto ha un prezzo e sono stati necessari dei sacrifici.
Cosa abbiamo sacrificato?
Quando come movimento si puntano tutte le energie e le attenzioni anche economiche sulle franchigie, cosa succede? I club, i settori giovanili, subiscono questa scelta. Perdono giocatori, cala il livello e cala l’interesse. Ricordo quando giocavo in Super 10, c’era interesse attorno alle partite. Oggi il campionato di Eccellenza ne ha perso, il livello si è abbassato perché l’investimento è minore. E la scelta l’ha fatta il movimento, le società si sono dovute adeguare. Ad oggi forse la vera domanda è: serve continuare a giocare questo campionato celtico? E’ produttivo? Abbiamo fatto un salto di qualità tale da dire che ne è valsa la pena? Queste sono le domande a cui rispondere. E bisogna anche avere l’umiltà di dire di no. Quindi o si progredisce o si cambia. A livello personale penso che far morire il club sia un peccato. Il club deve essere fonte principale, i ragazzini devono sentirsi parte di un club, il loro obiettivo deve essere giocare con la loro Prima Squadra. Poi si può fare un lavoro sulle selezioni. Secondo me si è intrapresa una strada che non ha portato frutti importanti, ha fatto perdere forza ai club e questo personalmente è un peccato. Oggi mi sarebbe piaciuto avere un Super 10 come l’avevo lasciato, ma con dieci squadre toste e due o tre competitive anche in Europa. C’è un vantaggio economico? No. Sportivo? Non sembra. Bisogna valutare e fare delle scelte, assumendosene la responsabilità. Poi c’è un discorso anche per le Accademie.
Cosa pensi di questo sistema di formazione?
Da esterno non posso dire che non abbiano raccolto i frutti, così come non posso criticarle al 100% o giudicare il lavoro tecnico: purtroppo non ho mai avuto il tempo di visitarle. E’ normale comunque interrogarsi su questo sistema. Di certo delocalizza la formazione: un ragazzo deve studiare, allenarsi, se è bravo allenarsi di più e con altri ragazzi più bravi, ma spostarlo credo non sia produttivo. Piuttosto le Accademie dovrebbero esistere in ogni singolo club, anche perché poi si rischia che psicologicamente il ragazzo pensi che quello sia lo step prima delle nazionali; quando invece il primo step deve essere quello di giocare nella prima squadra del proprio club ed avere la possibilità di essere chiamato in Nazionale dopo. Parlando con i giocatori che ne hanno fatto parte, alcuni hanno riscontrato delle difficoltà: essere costretti a lasciare il proprio club per allenarsi altrove per poi tornare a giocarci nel weekend fa perdere il senso di appartenenza.
Tornando alla questione Pro12, credi che in Argentina le cose andranno diversamente dopo l’ingresso nel Super Rugby?
Personalmente non so, ma sicuramente c’è un diverso approccio nei confronti del club, che ha la priorità. Poi certo, ci sono le selezioni regionali e quant’altro. Non so se con l’entrata nel Super Rugby lo perderanno, ma a pelle dico di no, perché il club è una grande filosofia. A livello nazionale è vero che i risultati sono arrivati soprattutto per i molti giocatori che hanno fatto esperienze di primo livello in Europa, ma all’ultima World Cup hanno giocato anche ragazzi provenienti dal domestic.
In nazionale hai avuto allenatori diversi per provenienza e formazione. Kirwan, Berbizier, Mallet, Brunel… Esiste una tipologia di tecnico per nazionalità e scuola più adatto all’Italia?
A livello di risultati le cose più positive sono arrivate con Berbizier e Brunel. Kirwan ha portato tanti giovani in Nazionale, tra cui me dopo nemmeno una partita in Prima Squadra con la Benetton. Ha avuto una visione, ha creato un blocco di giocatori che ora sono chiamati “senatori”. Comunque, noi italiani siamo più vicini al rugby francese, siamo latini e per questo più vicini all’approccio francese che sudafricano o britannico o neozelandese. Dagli anglosassoni comunque c’è da imparare per quel che riguarda la progettazione e la struttura ed impostazione dell’allenamento, aspetti in cui forse tendiamo a “improvvisare” un po’ troppo. Personalmente e soprattutto a livello umano Nick Mallet ha lasciato dei bei ricordi ed è con lui che abbiamo battuto per la prima volta la Francia al Sei Nazioni.
Chiudiamo con il tuo futuro. Recentemente hai dichiarato che ti piacerebbe restare nell’ambiente…
Questo è il mio lavoro, la mia passione, non penserei mai di poter fare qualcos’altro anche perché in questo riesco. Quindi difficilmente mi immagino nel post carriera senza rugby e penso che l’allenatore sia un ruolo in cui mi vedo e che potrei svolgere. Nel mio caso sicuramente c’è la possibilità di essere coinvolto nel mio club o comunque in Francia. Sarebbe una grandissima soddisfazione e questa è la visione che c’è nei confronti degli ex giocatori qui in Francia.
Ritieni che i grandi giocatori degli altri paesi che si ritirano siano più propensi a mettersi a disposizione della propria federazione/club?
All’estero c’è forse più tranquillità, ognuno di noi si sente importante già come giocatore e quindi dopo tanti anni in un determinato club c’è la possibilità di restare nell’ambiente. In Francia tantissimi ex giocatori allenano o hanno incarichi nel proprio club.
Di Roberto Avesani
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