Il CEO della federazione a stelle e strisce ci racconta quanto e come il rugby stia crescendo in quella (fertile) parte di Ovalia
Un nuovo campionato domestic professionistico al via tra poche settimane e un nuovo torneo internazionale panamericano parallelo al Sei Nazioni, la prima storica volta degli All Blacks a Chicago nel 2014 e la replica nel 2016, un match di Premiership il prossimo 12 marzo a New York e probabilmente uno in futuro di Pro12…Di Stati Uniti abbiamo parlato molto spesso. Del resto nel paese a stelle a strisce il rugby è lo sport di squadra che più velocemente sta crescendo, tanto da iniziare a prendere piede anche all’interno di college e high school, veicoli fondamentali di trasmissione della cultura e della pratica sportiva americana. A capo della federazione c’è l’inglese Nigel Melville, classe 1961 che in carriera ha collezionato 13 caps con l’Inghilterra prima di divenire Director Of Rugby ai Wasps e coach a Gloucester. Sin dal suo insediamento nel 2006 negli Stati Uniti Melville ha promosso una politica di espansione che fa dell’allargamento della base dei praticanti e della visibilità mediatica il suo punto di forza. Lo abbiamo intervistato per capire quanto, come e seguendo quali direzioni il rugby made in USA stia crescendo.
Secondo alcune ricerche il rugby è lo sport di squadra che negli Stati Uniti sta crescendo maggiormente e ad ogni livello. C’è insistenza sul Seven e sul Femminile, ospitate gli All Blacks e ora pure la Premierhsip…Qual è la chiave della crescita del movimento?
Ci siamo concentrati soprattutto sui più piccoli, sull’età in cui i bambini scoprono lo sport. Ora possiamo contare più di un milione di praticanti dai 6 ai 12 anni che giocano il cosiddetto Rookie Rugby, una versione senza contatto. La disponibilità di imparare questa forma adatta ai più piccoli sta creando una sempre maggiore domanda di rugby nelle high schools e nei college e sarà la base per costruire il rugby statunitense del futuro. Invece a livello élite vogliamo che i giocatori e i tifosi possano avere la possibilità di vedere il miglior rugby possibile, dovunque si giochi, per farli sentire parte della famiglia del rugby globale.
Quanto è importante il veicolo di college e high school nel sistema sportivo statunitense?
Moltissimo, perché è qui che sono giocati tutti i maggiori sport. Ci sono molte sfide, i programmi sono incentrati su basket, football e baseball e quindi la maggior parte dei finanziamenti prende queste tre direzioni. Ma già ci sono dei fondi dedicati al rugby, che viene praticato in circa 900 college, mentre nelle high school contiamo circa 30.000 giocatori.
Il rugby è uno sport che in diversi casi ha un’organizzazione chiusa, fatta di franchigie e competizioni stagne senza un sistema di promozione e retrocessione, cosa che ricorda la super leghe statunitensi…
Quest’anno avvieremo una piccola competizione professionistica (Pro Rugby, ndr) formata inizialmente da sei squadre a cui ne aggiungeremo altre e che inizierà il 17 aprile. Sarà una competizione chiusa per necessità: in questo momento non abbiamo molti team e l’obiettivo è rafforzare la Lega per poi espandersi.
Cosa porterà questa nuova competizione?
Porterà più di 120 giocatori che si allenano tutti i giorni da professionisti: un passo enorme per noi e che aiuterà la nazionale ad essere più competitiva.
Lei ha lavorato nel mondo dello sport sia in Europa e che dall’altra parte dell’Oceano. Ha notato differenze?
A dire il vero molte dinamiche sono simili e c’è un punto di partenza comune: il mondo dello sport è gigante ma a dominare sono i pochi maggiori. La vera sfida qui negli Stati Uniti per il rugby ma in generale per i cosiddetti sport minori è avere più attenzione mediatica: le persone devono essere intercettate, perché poi quando vedono il rugby lo apprezzano e si divertono pure. Specialmente con il Seven, che viene anche capito più facilmente del quindici.
E’ vero che le partite del Pro Rugby 2016 saranno trasmesse in diretta streaming?
Certamente. Stiamo mettendo in piedi un canale digitale dedicato al rugby, che sarà lanciato nei prossimi mesi e avrà tanti contenuti a disposizione.
E’ stato annunciato anche l’Americas Rugby Championship. Un altro passo importante…
Questa è un’opportunità per tutto il continente: ci saranno più partite, gli Eagles giocheranno in Sudamerica e ne beneficeranno anche in termini di visibilità. Questo torneo darà anche la possibilità di far crescere i nostri arbitri, oltre che tutto il reparto di management e amministrativo.
Agli ultimi Mondiali abbiamo assistito alla ribalta di paesi non del Tier One. Episodio isolato o il rugby sta veramente cambiando nelle sue gerarchie?
Sono anni di grande fermento per la palla ovale: Rio 2016 sarà un enorme successo per il rugby Seven, ma anche queste competizioni aiutano eccome ad aumentare la competitività di queste federazioni. E poi avere nuove competizione significa attrarre nuovi sponsor, firmare nuovi contratti televisivi, accrescere l’audience globale. E’ solo questione di tempo prima che i soliti cinque paesi più forti al mondo possano essere affrontati per le posizioni più alte del ranking.
Alcuni paesi da tenere d’occhio?
Stati Uniti, Germania e Brasile.
La MLS di calcio è stata lanciata nel 1993 e oggi è piena di campioni. Pensate di poter attrarre qualche giocatore importante con il nuovo torneo domestic?
L’orizzonte di tempo che ci siamo imposti è 10 anni. Entro allora l’obiettivo è creare una competizione credibile, in grado di attirare giocatori importanti, aspetto fondamentale per lo sviluppo del gioco.
Tra dieci anni gli Eagles saranno realmente competitivi?
Abbiamo avviato gli youth programs nel 2008: chi allora aveva sei/sette anni ora entra nella high school e lì ha la possibilità di praticare il rugby. Tra dieci anni Ovalia sarà un paese completamente diverso.
Di Roberto Avesani
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