Marco Pastonesi scatta una fotografia di un giovane azzurro che sabato contro la Scozia conquista il suo secondo cap
“Non sono stato io ad andare al rugby – ricorda -, è stato il rugby a venire da me”. La verità è che è stata la mamma a portarlo al rugby: “Avevo sei anni, era un centro estivo a Reggio Emilia, l’obiettivo era lasciarmi sfogare con gli altri bambini, si giocava a calcio, basket e rugby, e a conquistarmi è stato il pallone ovale, anzi, i suoi rimbalzi imprevedibili”. Adesso che di anni ne ha 22, che la sua maglia è azzurra e il suo numero il 15, dice che per il pallone ha “più dimestichezza” e per i rimbalzi “più intuito”.
L’Italia è nelle mani, e nei piedi, di David Odiete: radici nella Nigeria, anagrafe e famiglia a Reggio Emilia, casa e squadra a Mogliano, e contro la Scozia il secondo “cap” con l’Italia. “Ero così piccolo, e si giocava così tanto, che non ricordo più né la prima partita né la prima meta. Erano concentramenti, ogni giorno si giocavano cinque o sei incontri, e le squadre sembravano arrivare dappertutto. Però, siccome l’Under 6 non esisteva, si giocava nell’Under 8, così mi trovavo contro ragazzini due anni più grossi di me, ed è lì che dev’essere nata la mia voglia di evitarli e sfuggirgli”.
Accademia, Zebre, Mogliano. Ala, estremo. “Cercavo spazio. Spazio dove giocare: in un club. E spazio per giocare: in campo. Estremo è il ruolo e la posizione che sento finalmente mie, che me le sento dentro. Il bello del’estremo, una visione diversa – da dietro – da quella che hanno tutti gli altri giocatori, e che ti permette di anticipare mosse e movimenti. Il brutto – no, il brutto non esiste – il difficile dell’estremo è che sei dietro da solo”. Ma non è solitudine. “Devi comunicare, spostare, salire. L’ultimo dei difensori, da un calcio lungo o quando la linea è bucata, ma l’attaccante in più”. Nessun modello in generale, ma tutti in particolare: “Ben Smith, All Black, come governa le palle alte. Mike Brown, Inghilterra, come si rende sfuggente. Leigh Halfpenny, come è consistente. Il vecchio Jason Robinson, Inghilterra, per come accendeva le gambe e costruiva gli intervalli in pochissimo spazio”. E lui: “Contrattaccare, palla in mano, spazi stretti”.
David con la maturità scientifica e l’università in Scienze dell’alimentazione. David che da piccolo voleva diventare rugbista professionista, che adesso vuole diventare il migliore giocatore possibile (“Un passo alla volta, ma sempre di corsa”) e che da grande farà il nutrizionista. David che con gli amici gioca a basket e che da solo pratica yoga. David che “del debutto contro la Francia mi sono goduto ogni attimo”, anche l’infortunio e la sconfitta, che “non è stata una cascata di emozioni che si è rovesciata in un solo istante, ma un evento preparato fin dal primo allenamento con i compagni, i tecnici e infine gli spettatori”, che “il momento più emozionante è stato l’ingresso in campo, mi sono detto ‘ci siamo’ e poi è stato tutto alla grande, anche 70 mila persone che intonavano la Marsigliese”, David che “una meta non mi ha cambiato la vita, ma alcune mete mi sono rimaste: quella della vittoria all’ultimo minuto con l’Accademia a Firenze contro il Firenze, quella con le Zebre a Cardiff per la prima vittoria esterna, quelle due con il Mogliano contro Rovigo”. David che spiega come “la meta è, più che uno stato di grazia, un picco di massima concentrazione. Il campo, i compagni, il pallone. E tu”.
Tu, Odiete.
di Marco Pastonesi
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