I tifosi e la maglia azzurra. Un amore infinito, ma è arrivato il momento di fischiare?

Piccolo sfogo di chi è appassionato di rugby e nazionale italiana. Con un dubbio: e se i fischi ci aiutassero a crescere?

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

La premessa d’obbligo è che questo è un articolo da tifoso, da appassionato. E lo svolgimento è tutto lì, nel titolo.
Perché forse è venuto il momento di fare un salto di qualità anche noi che andiamo sugli spalti e che guardiamo la partita in tv, che soffriamo e partecipiamo a nostro modo alle fatiche dei XV che vanno in campo. Che riempiono sempre gli stadi dove gioca la nazionale, quale che sia il risultato.
I tifosi di calcio osservano da sempre un po’ sbigottiti e increduli i 70mila che puntualmente affollano l’Olimpico per il Sei Nazioni. Perché si vince molto poco e a loro sfugge questa cosa della passione a prescindere dal risultato. Perché è bello andare allo stadio senza aver paura di prender le botte (se non peggio) solo perché indossi i colori che qualcuno considera sbagliati, ed è bello godersi quegli 80 minuti di battaglia fianco a fianco al tifoso dell’altra squadra e poi bersi una birra insieme. E’ davvero bello, poche ciance.
Però non so voi, ma a me piacerebbe vincere. Ogni tanto. Non mi basta più andare a Parigi e giocarsela e poi tornare con le pive nel sacco come è capitato tre settimane fa. Non bastano più i 50/60 minuti giocati bene se poi veniamo travolti. Voglio vincere, così come vogliono vincere i tifosi irlandesi, scozzesi, francesi e inglesi.

 

Ora, non ci sfiora minimamente l’idea che le cose possano essere diverse per lo staff azzurro e per chi va in campo. Anzi. Lì, se possibile, la voglia di vincere è più forte anche che sugli spalti. Su quel prato verde i giocatori ci mettono fatica, sudore, si giocano i lori sogni e le loro speranze, danno e prendono botte. Lo sappiamo benissimo e noi li rispettiamo per questo. Lo faremo sempre, non c’è nemmeno bisogno di sottolinearlo. E se oggi l’Italia perdesse 50 a 0, la prossima volta noi sugli spalti ci saremo ancora, perché amiamo questo sport e amiamo quella maglia.
Però così come non vediamo l’ora di applaudire e di gridare di gioia non dobbiamo sentirci come dei ladri in chiesa se il desiderio che prevale alla fine degli 80 minuti è quello di fischiare. Quell’amore di cui abbiamo parlato prima non deve essere cieco o acritico. Il nostro essere vicini alla squadra non va dimostrato, perché siamo sempre lì in tanti, e lo saremo anche tra un anno, e non è che di soddisfazioni ne abbiamo prese un granché finora. E il colpo d’occhio allo stadio è sempre di quelli importanti.

 

Fischiare senza sentirsi in colpa, senza aver paura di aver commesso un delitto di lesa maestà, sarebbe un salto di qualità nella crescita del rapporto tra noi e la nazionale. E probabilmente, una volta superato lo choc iniziale, sarebbe un salto di qualità anche nella testa del gruppo azzurro. Che il nostro amore è lì, lo abbiamo già detto e non ci stancheremo mai di dirlo, ma anche noi vogliamo essere “corteggiati” a dovere, non mettiamo in dubbio la quantità dell’impegno messo ogni volta da chi scende in campo ma sulla qualità crediamo che si possa discutere e magari avere idee diverse. Certo ci sono gli avversari, un evidente gap da colmare e un mucchio di variabili. Però…
Twickenham ha fischiato i suoi beniamini, è successo al Millennium e a Dublino, a Edimburgo e a Parigi. Londra, Cardiff, Murrayfield, l’Aviva o lo Stade de France non hanno mai fatto mancare il loro apporto ma hanno sempre fatto capire a chi indossa le maglie delle nazionali di casa che l’impegno non basta. Si vogliono vedere risultati e possibilmente bel gioco. Quei fischi non sono uno scandalo e – forse – hanno aiutato a far capire agli stessi giocatori che potevano fare e dare di più. Senza che nessuno si sia sentito offeso.
La nazionale italiana sa di avere il pubblico dalla sua parte, a prescindere, però in un rapporto di coppia avere la “sicurezza” dell’altro quale che sia il proprio comportamento non è mai una bella cosa. Forse è venuto il momento di farsi desiderare un po’. Forse.

 

Il Grillotalpa

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