Il coach dei Pumas dei miracoli del 2007 legge il rugby italiano e indica la sua via
“Ci vuole pazienza, un passo per volta. Lavorare tanto sulla base, con i bambini: perché è in quel momento, che si costruiscono i giocatori di rugby […] Noi abbiamo fatto così. Invece ho l’impressione che in questi anni l’Italia abbia sempre preteso qualcosa di più ambizioso rispetto alle sue reali possibilità. Peccato“. Inizia così l’intervista di massimo Calandri a Marcelo Loffreda, coach dell’Argentina capace di centrare il terzo posto i Mondiali 2007, pubblicata sulle pagine digitali di Repubblica.it. Dall’exploit francese sono passati quasi dieci anni, durante i quali il movimento argentino ha fatto passi da giganti che si sono riflessi in una nazionale stabilmente ai vertici di Ovalia e in giocatori usciti dai campionati domestici di assoluto valore.
Ma per farlo, racconta, si parte da molto indietro: “Perché il rugby si costruisce prima di tutto nel club […] In Italia ci sono tanti di centri di formazione per i ragazzi dai 16 anni in su, quindi le Accademie. Bene. Ma il lavoro decisivo arriva prima: a quell’età devi già avere delle radici forti”. Dopo però non bisogna pretendere tutto e subito, soprattutto con i più giovani, come predicava Graham Henry che con lo staff tecnico della UAR ha collaborato: “Anche Henry ce lo ripeteva in continuazione: fate le cose semplici, fatele bene […] Il duello. L’occupazione dello spazio. Il divertimento. L’appartenenza. Il dilettantismo”. Da noi arriverà Aboud: “Bisogna andare nei club, parlare con allenatori ed educatori, dividere per regioni. Aboud lo sa. Ma temo che un solo uomo sia poco, per rifondare il sistema”.
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