La discussa haka di San Siro: se la danza maori diventa un feticcio intoccabile

La brutta scena di Milano ci dà la possibilità di affrontare quello che è diventato un mezzo tabù

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Il fatto: giovedì 21 aprile allo stadio di San Siro, prima della partita di Serie A di calcio tra Milan e Carpi va in scena un’haka. O meglio, una sorta di copia molto brutta e molto sbiadita di quella che nella mente di qualcuno avrebbe dovuto essere un’haka. Undici attori – non erano i giocatori rossoneri – mettono in scena questo siparietto per uno spot pensato da una delle aziende che sostengono il club rossonero. Nemmeno un’ora dopo il kick-off di quella partita il web e i social network sono inondati dai video di quell’esibizione e montano immediatamente critiche feroci, sberleffi e pure parecchie insulti al mondo del calcio, allo sponsor che ha organizzato il tutto e a chi l’ha concretizzato. Insomma, la “normale” e al solito pacata reazione della Rete.
Mettiamo intanto alcuni puntini sulle “i”: quella haka è oggettivamente inguardabile. E’ esteticamente brutta, inutile girarci attorno. Al pari di quella pensata per uno spot televisivo di una trasmissione calcistica di qualche mese fa. Però questo episodio può aiutarci a fare un passo in più e affrontare un paio di aspetti che rimangono sempre ai margini delle discussioni: ovvero di cosa sia oggi la haka e del nostro rapporto con la danza maori, dove per “nostro” intendiamo quello degli appassionati di rugby.

 

La haka oggi è il passaporto con cui un po’ tutta la Nuova Zelanda si presenta al resto del mondo, ma non è sempre stato così. Anzi, lo è da tempi molto recenti. Come scriveva la nostra Melita Martorana in uno speciale in tre puntate che abbiamo pubblicato nel maggio 2015, la “Ka mate” venne sì associata alla nazionale neozelandese di rugby sin dalla fine dell’800, ma è anche vero che le sue rappresentazioni erano riservate solo alle gare che gli All Blacks giocavano lontano dalla madre patria (e fu così sino al 1986, cioè l’altro ieri) e che come scrivevamo mesi fa “nonostante quasi cento anni di storia, video e fotografie, non è un segreto che i giocatori kiwi, sino al dopoguerra, non hanno avuto modo di apprezzare e soprattutto capire pienamente il vero significato della Ka Mate. Gli stessi Andy Dalton, Sir John Graham e Sir Colin Meads hanno spesso fatto riferimento a come non siano mai riusciti a entrare veramente nello spirito della haka, dal momento che nessuno gliene aveva insegnato o spiegato l’intensità”. Intendiamoci, Dalton e soci dicevano queste cose con rammarico, ma la situazione era quella e rifletteva probabilmente una condizione sociale e culturale di quella Nuova Zelanda, che oggi è cambiata.

 

Haka come simbolo di appartenenza culturale alla propria terra? Sicuro, nessuno lo vuole mettere in dubbio, ma a livello generale è una cosa recente, che non affonda poi così tanto nelle brume del tempo. E’ altresì indubbio che oggi sia così, che i neozelandesi sentano e percepiscano la haka in quel modo. I neozelandesi però. Che sono circa 4 milioni. Poi ci sono le centinaia di milioni di persone che vivono lontano da quella terra e per le quali la haka è  – non raccontiamocela – solo (anzi, “solo”, le virgolette sono importanti) tradizione e folklore altrui. Una cosa bella da vedere e a cui assistere, ma insomma, non andiamo molto più in là.
La levata di scudi di qualche giorno fa non è perciò comprensibile sotto l’aspetto del “rispetto della cultura altrui”, cosa di cui tra l’altro molta gente si fa quotidianamente beffe, ma è in realtà probabilmente riconducibile a una sorta di riflesso pavloviano che molti appassionati di rugby hanno nei riguardi del calcio. Siamo convinti che se quell’haka – lo ripetiamo: brutta, davvero brutta – fosse andata in scena prima di una partita di basket (è solo un esempio) anche molto importante avrebbe avuto non solo una eco più ridotta (ok, quella è dovuta anche alla capacità del calcio di amplificare qualsiasi cosa venga toccato da quel mondo) ma anche reazioni meno scomposte e critiche meno rabbiose. A rendere “scandalosa” quell’haka è stato l’ambito specifico dello sport che l’ha messa in scena, se non ci fosse stata di mezzo l’odiata palla tonda…

 

Negli ultimi anni siamo stati spettatori di una sovraesposizione mediatica della haka, che abbiamo visto eseguita in un po’ tutte le salse (troppe?), dalle piazze agli studi televisivi, da gente vestita da all blacks d’ordinanza a personaggi in bermuda e infradito. Che vanno bene per carità – chi non le indossa? – ma che cozzano con la presunta sacralità della danza. Che fossero neozelandesi o meno gli attori protagonisti quasi mai queste rappresentazioni avevano l’intensità che dà il senso di appartenenza che invece salta subito agli occhi in altri specifici appuntamenti. Che ci sono, ovviamente, ma sono la minoranza. Diciamolo, il primo ambito in cui il senso della haka è stato annacquato è quello rugbistico. Magari non è stato nulla di volontario, ma è successo. Non ci si può perciò stupire più di tanto se sponsor e sport altri ne percepiscano solo gli aspetti più esteriori e di vendibilità.
Già, la vendibilità. Anche qui bisogna essere chiari e non nascondersi dietro al proverbiale dito, che non è che la “haka non si può usare per fare pubblicità”, come in molti hanno detto e/o scritto in questi giorni. Che poi, tutti a criticare la Nivea e il Milan per essersi fatti pubblicità con la danza maori ma nessuno che in queste ultime settimane abbia detto nulla verso il sito di vacanze booking.com, che ha usato proprio una haka per pubblicizzare il turismo verso la Nuova Zelanda (potete guardarla qui). E’ sicuramente più bella di quella di San Siro, la cosa non si discute, ma pure lì ci sono evidenti ed esclusivi fini commerciali. Però in quel caso tutto bene, almeno per il popolo ovale.

 

I primi ad usare l’haka per pubblicità commerciali sono stati i neozelandesi stessi e continuano qua e là a farlo. Ovviamente in quei casi quel famoso “senso di appartenenza” viene sempre sottolineato in qualche maniera, ma chi lo può percepire? I neozelandesi stessi e i tifosi di rugby più appassionati. Stop. Gli altri si accorgono della bellezza, dell’intensità e della potenza che sprigionano la “Ka mate” o la “Kapa o Pango”. Che è quello che hanno visto al Milan e alla Nivea, ovvero la sua innata mediaticità. Ma non ci si può arrabbiare per questo: una volta che sdogani l’uso commerciale della haka hai abbattuto un portone che le normative introdotte negli ultimi anni e che assegnano ai Maori la proprietà intellettuale e i diritti d’autore della haka non possono ricostruire.

 

Rimane quella brutta cosa vista a San Siro e che è stata sbeffeggiata dalla stampa e dai tifosi di mezzo mondo. Non un grande affare per l’azienda promotrice e per il Milan, alla fine il tutto si è trasformato in un mezzo boomerang.
Stupisce un po’ il fatto che ad essere coinvolta è una società di calcio che ha per main sponsor lo stesso degli All Blacks (e i tuttineri saranno praticamente gli unici in Ovalia a mantenerlo: Adidas lascerà anche Francia e Italia al termine dei contratti in essere) e ancor di più stupisce che a San Siro a guidarla fosse un neozelandese doc come John Akurangi, che non si sia reso conto della trappola mediatica a cui stava andando incontro. Ma questi sono dettagli secondari, l’importante è che si possa parlare di haka in maniera più laica possibile. E darle magari anche una ridimensionata per quanto riguarda l’esposizione. Alla fine, è “solo” una danza. Almeno per tutti i non-neozelandesi.

 

Il Grillotalpa

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