Per far fronte alle esigenze di un gioco sempre più veloce, attacchi e difese si stanno attrezzando. Guardando anche altre discipline…
C’è una cosa che si è notata in particolare guardando partite e highlights della stagione attualmente in corso di Super Rugby. Oltre ovviamente alle solite mete spettacolari e gesti atletico-tecnici da capogiro, ad aver impressionato è la velocità di esecuzione che certe squadre mettono in campo. E non ci stiamo riferendo alla rapidità legata ad un singolo gesto, ad esempio un lancio in touche o il tallonaggio in chiusa, ma la velocità del gioco in senso proprio, ovvero la dinamicità con cui le azioni si susseguono, creando multifase in cui la parola d’ordine è una e una sola: velocizzare. Ciò è possibile grazie ad aspetti endogeni al gioco, come la condizione fisica e se vogliamo la minor fiscalità con cui i direttori di gara interpretano le situazioni, ma anche grazie a precisi gesti che sembrano essere stati mutuati da due discipline che con del rugby a quindici sono parenti: il Seven e il League.
Prendiamo, ad esempio, l’area del breakdown, situazione di gioco tanto frequente quanto decisiva in termini di rapidità ed evoluzione dinamica della manovra, al punto che non a caso compito della difesa in certi momenti è anche quello di sporcare il punto d’incontro per rallentare l’avversario. Ebbene, per evitare interferenze di alcun tipo da parte della difesa talvolta la scelta del placcato è quella di far rotolare l’ovale nella direzione della propria squadra, favorendo così la raccolta di un compagno e prevenendo l’intervento di un difensore, ad evitare addirittura il formarsi di un punto d’incontro. Un gesto questo tipico del rugby a sette, dove il rischio di isolarsi dal sostegno è altissimo. Ma questa stessa identica situazione, ovvero la volontà di non formare un breakdown, capita anche a parti invertite ovvero per una voluta non contestazione della difesa. I Chiefs ne sono maestri, ma succede molto di frequente anche durante le partite di Seven, dove per l’esiguo numero di giocatori in campo si cerca di impiegarne il meno possibile nell’area del breakdown concentrandosi nell’occupazione. Non contendere né interferire in una situazione di placcato/placcatore significa di fatto non formare una ruck e tutto ciò ha due vantaggi: uno, numerico, è che l’attacco comunque impiega almeno un paio di sostegni per garantire il possesso, a fronte di una difesa a quindici uomini in piedi nel momento in cui anche il placcatore si alza; l’altro, di gioco, è che senza un breakdown non si origina nemmeno una linea di fuorigioco e la difesa può salire mettendo enorme pressione.
L’altro aspetto, più evidente e generale, è invece quello legato al rugby a tredici e si riflette nell’importanza sempre più decisiva del blocco dell’offload. Un aspetto questo la cui importanza è proporzionale all’arrivo di giocatori che come Nakarawa, Vakatawa e Itoje hanno i mezzi non solo per battere o attirare più difensori, ma anche per riciclare dando rapidità. Come fermarli? Anche affidandosi a defense coach che hanno esperienza da giocatore e/o tecnico nel League. Come Shaun Edwards, assistente di Gatland nel Galles e tra i più stimati allenatori della difesa di tutta Ovalia, o Andy Farrell, che dopo il taglio della RFU dopo la delusione Mondiale ha trovato subito casa in Irlanda.
Di Roberto Avesani
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