Abbiamo intervistato il giovane fischietto italiano. Tra rugby che cambia, nuove regole, pressione e preparazione
Lo scorso 29 maggio Marius Mitrea ha diretto il Test Match di Twickenham tra Inghilterra e Galles, primo arbitro italiano di sempre a dirigere un match tra due squadre Tier One e per di più nel tempio del rugby inglese. Un traguardo importante, arrivato dopo nove anni di duro lavoro e continuo allenamento, come ci ha raccontato in una lunga intervista il fischietto di gara del Gruppo di Udine, nato in Romania nel 1982. Assieme abbiamo parlato della sua rapida ma importante carriera e in generale del mestiere di arbitro, in un rugby sempre più veloce e in cui è fondamentale mantenersi allenati e aggiornati.
Quando ti sei avvicinato per la prima volta al rugby?
Ho cominciato a seguirlo da ragazzo in Romania. Poi dopo la caduta del regime di Ceaușescu il movimento rugbistico nella zona (Moldavia romena, ndr) diminuì fino a sparire. Mi sono riavvicinato alla palla ovale una volta arrivato in Italia, a Paese, dove ho giocato fino al 2007 quando avevo 25 anni.
L’idea di fare l’arbitro ti è arrivata mentre giocavi?
A dire il vero no. Quando giocavo non consideravo l’arbitro da questo punto di vista, nel senso che non era una figura presente nei miei pensieri e orizzonti. Poi dopo che avevo subito un infortunio uscì una circolare FIR che invitava le società ad inviare i giocatori per seguire dei corsi, io ero fermo e accettai di partecipare. Da lì è partito tutto, da quello che inizialmente è stato un episodio sfortunato.
Aver prima giocato a rugby ti ha aiutato nel momento di prendere il fischietto?
Già da subito ho notato una grossa differenza tra gli arbitri che non hanno mai giocato e quelli che invece hanno giocato o allenato. Nel modo di relazionarsi con i giocatori, di capire il gioco…Diciamo che in genere se hai giocato impieghi meno tempo per fare esperienza. Penso comunque che per un arbitro sia importante avere trascorsi nel rugby giocato o allenato.
Dal 2007 ad oggi la tua carriera è stata piuttosto rapida. Quali i momenti più importanti?
Nella stagione 2010/11 ho arbitrato in Eccellenza, poi è arrivato il primo Test Match: Belgio-Canada nel novembre 2010. Quella è stata la partita che conta maggiormente come simbolico punto di partenza per la carriera vera e propria, il Canada è una Tier 2 ed è stato un bel passo. Un’altra partita che ricordo è il derby Frascati-Colleferro del 2009: pioveva, il campo era pesante e la partita fisica e sentita, tosta insomma. Ma è lì che devi avere il carattere per gestire le partite dure, le sfide non mi hanno mai intimorito anzi mi ha sempre esaltato dover gestire sfide ostiche in cui devi parlare ai giocatori per tenere la direzione sotto controllo.
E infine il Test Match di Twickenham tra Inghilterra e Galles nelle scorse settimane…
Quella designazione ho dovuto sudarmela parecchio, magari anche più di quanto non avrebbe fatto un arbitro di Union più blasonate. Prima ci sono state tante partite importanti con i club, come le semifinali del Pro12 e altre partite di coppa. Facendo bene tutto il percorso diciamo che quella designazione è stata uno sbocco quasi naturale. Comunque, era un match particolare: inaugurava la finestra di giugno, si giocava a Twickenham tra Inghilterra e Galles e per la prima volta l’Emisfero Nord adottava alcune nuove regole. Diciamo che vi erano molto occhi puntati, oltre a quelli degli 82.000 spettatori.
Come sei riuscito a gestire l’emozione in quei momenti?
L’esperienza mi ha aiutato. Non mi sono fatto coinvolgere, era come una partita “abbastanza” normale. Non volevo certo modificare il mio modo di arbitrare, anche perché se mi è stata assegnata è stato per il modo che ho di dirigere la gara quindi ho cercato di non cambiare nulla. Per quanto riguarda l’incontro, sinceramente è volato anche perché giocato a ritmi elevati: ricordo l’intervallo, ecco…Poi sinceramente non ho avuto tempo di pensarci, un’ora dopo siamo volati in Sudafrica per un raduno di test fisici. E’ stata una settimana impegnativa, ma ne è valsa la pena.
Quanta preparazione atletica c’è nella vita di un arbitro internazionale?
Tantissima e ogni stagione è sempre più difficile. Alzano l’asticelle di test fisici, massa grassa e muscolare, ogni arbitro ha parametri in cui deve rientrare. Lavoriamo anche con uno psicologo per i test attitudinali. E’ un lavoro vero e proprio e in cui non puoi mai smettere di allenarti. Ora dopo undici mesi di stagione, dallo scorso agosto a fine giugno in cui ho fatto 46 partite tra arbitro e assistente arbitrale, con 31 trasferte all’estero, devo continuare ad allenarmi anche perché a Roma ci sarà a giorni un raduno degli arbitri italiani con test fisici. Anche per noi l’ultimo quarto di gara è fondamentale, devi arrivare in forma per essere mentalmente lucido.
Quanto è difficile arbitrare questo sport, sempre più veloce?
Sta diventando sempre più difficile anche perché noi siamo costretti a inseguire il rugby, nel senso che prima cambia il gioco e poi cambiano le regole. Comunque in un Test Match tra breakdown, mischie e touche arrivi a 250 occasioni in cui devi prendere una decisione in meno di un secondo, una dietro l’altra. E non solo deve essere una decisione a scatola chiusa, ma devi anche pensare a che impatto avrà un fischio o un non fischio sul gioco da lì in avanti.
Quali altri aspetti incidono o possono influenzare?
Nell’Emisfero Nord è più facile trovare brutto tempo, quindi un rugby fisico e difficile da arbitrare, come per esempio in Premiership. Ma questo vale anche in Pro12, dove oltre a diversi climi ci sono anche diversi stili di gioco. Ogni settimana sei in un paese diverso e l’arbitro non deve avere lo stampino: nel senso, non puoi arbitrare sempre e solo nello stesso identico modo in qualunque condizione e situazione. Possono permettersi di farlo arbitri come Owens o Joubert, che dirigono sempre incontri di altissimo livello internazionale. Chi invece ancora deve seguire le proprie orme deve guadagnarsi rispetto facendo esperienze anche tra loro diverse.
Giocare al limite del regolamento e magari anche oltre è una delle abilità delle squadre più forti, così come non farsi vedere in alcune situazioni come il finto penetrante che blocca il difensore interno. Come si pone l’arbitro in questo caso?
Le squadre studiano come poter giocare al limite. Noi come arbitri dobbiamo essere bravi guardando partite, seguendo i corsi di aggiornamento, per poter anticipare ciò che accadrà. Ma le squadre ci provano: è un gioco professionistico, conta vincere, i contratti si firmano se un allenatore o un giocatore è vincente quindi la volontà di fare risultato è una componente importante e si raggiunge anche con trucchetti del mestiere. Comunque ci diamo delle direttive per gestire alcune situazioni. Hai citato i dummy runner che corrono a vuoto: se il giocatore ha la possibilità di ricevere il pallone e il difensore ci casca allora è un problema di quest’ultimo e il gioco prosegue, ma se corre a vuoto senza possibilità di ricevere concentrandosi solo sul bloccare il difensore allora arriva il fischio. Magari sembra sempre ostruzione, ma dietro qualsiasi decisione c’è un ragionamento. Poi certo si sbaglia, ma questo è ovvio e naturale. In media guardo dieci partite a settimana, le studio e questo aiuta.
Come giudichi le nuove regole recentemente introdotte?
Ora per esempio è cambiata la regola della maul e già ho notato più ripartenze che favoriscono il gioco. In genere comunque le regole vogliono dare sviluppo al gioco, favorendo la ball in play e le mete a discapito di calci, reset e quant’altro. Sviluppare maggiormente il gioco significa andare incontro a spettatori, sponsor…E’ come un’azienda che cerca di espandersi vendendo un prodotto più appetibile ed è ciò che l’Emisfero Sud fa già da alcuni anni.
Spettacolo significa anche replay istantanei, maxi schermi e quanto altro per rivedere all’istante ogni fischio e giudicarlo. Tutto ciò crea inevitabilmente molta pressione…
L’arbitro è diventato una componente fondamentale del gioco, a volte si vince o si perde a seconda di come si è stati in grado di adeguarsi al giudizio arbitrale. Comunque ci spiegano subito che sbagliare è normale e umano, ma l’importante è che dall’errore si tragga un insegnamento, così come sbaglia ma impara un allenatore a impostare una partita o un giocatore a giocarla. Ora ci sono replay, moviole, telecronisti che magari non sono sempre cultori del regolamento e tutti danno un proprio giudizio, cosa che forse ci sta allontanando da un certo spirito del rugby. Un’altra cosa che consigliano è di non leggere i media, rilasciare interviste dopo le partite e cercare di restare esterni al mondo dei social, che hanno un impatto ormai non indifferente sulla nostra vita. E’ meglio restare esterni a certe dinamiche e meccanismi, per avere maggiore sicurezza e non farsi condizionare.
Spesso in Italia si diventa arbitro per ripiego: dopo un infortunio, oppure se l’allenatore in giovanile non ti dà molto spazio…Come invertire questa tendenza?
Nelle altre Union tutto è più facile per la presenza dei campionati scolastici e per la diffusione della palla ovale. Credo che, al di là di progetti e campagne per far conoscere la figura dell’arbitro, servirebbe ritrovare un po’ di cultura rugbistica. Mi spiego: se nelle partite di base delle giovanili vedi genitori che protestano da bordo campo con l’arbitro, allora già ti senti sotto pressione e tutto ciò non incentiva certo un giovane giocatore a decidere di diventare un arbitro.
Consigli per un giovane arbitro?
Credo che il vissuto e le esperienze biografiche e professionali che ognuno fa siano d’aiuto, o almeno così è stato per me: a volte arbitri giovani si trovano a dirigere partite di Serie B o C con trenta giocatori ben più grandi e non sempre la gestione è facile. E infine un consiglio: l’arbitro deve essere onesto prima di tutto con se stesso, riconoscere i propri errori e non chiudersi nascondendosi. Non è l’atteggiamento giusto. Nigel Owens e Jerome Garces accettano sempre tutti i report, non pensano mai di essere arrivati e ascoltano ogni consiglio.
Il rapporto tra arbitro e club?
La collaborazione che ho avuto con la Benetton mi ha aiutato moltissimo, ma è servita anche ai giocatori. L’ultimo consiglio che do è proprio quello di andare nei campi, nei club, per allenarsi insieme come ho la possibilità di fare con Paese: così cresciamo tutti insieme e non lavoriamo a reparti stagni.
di Roberto Avesani
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