La maturità ai Wasps, la nuova avventura alle Zebre e l’obiettivo azzurro: parla Carlo Festuccia

Abbiamo intervistato il tallonatore aquilano, rientrato in Italia dopo le stagioni in Inghilterra con le vespe

carlo festuccia

ph. Peter Cziborra/Action Images

PARMA – Dopo le stagioni disputate in Inghilterra, Carlo Festuccia è rientrato in Italia per indossare la maglia delle Zebre. Il tallonatore aquilano, classe 1980 e 54 caps in azzurro, è reduce da un anno più che positivo con le vespe, durante il quale si è giocato titoli importanti come Champions Cup e Premiership, partendo titolare in entrambe le semifinali. Assieme abbiamo parlato proprio delle esperienze all’estero, di ciò ha imparato e che cercherà ora di trasmettere ai nuovi compagni di squadra e anche dell’obiettivo di riconquistare la maglia azzurra.

 

 

Dal punto di vista professionale, cosa ti ha più impressionato di un club prestigioso e competitivo come i Wasps?
La cosa che più mi ha colpito e porterò dentro da questo punto di vista è la struttura organizzativa, ovvero come la società tutta lavora. E in Inghilterra è diverso rispetto a ciò che ho potuto vivere in Italia e in Francia. C’è una cultura professionale incredibile anche fuori dal campo, dove ognuno è responsabile del proprio settore e di far girare l’intera struttura al meglio, in funzione della squadra che è al centro: ogni settore è specializzato e il lavoro diviso, ognuno si occupa della propria competenza e non invece di un po’ di tutto…Da quando ho iniziato ai Wasps ad oggi il personale è passato da dieci a cento persone e tutto è in continua evoluzione: ora stanno costruendo a Coventry il centro di allenamento, per esempio.

 

 

Come è giocare in una squadra così seguita dai propri tifosi?
I Wasps sono una squadra seguitissima, ricordo anche quando siamo venuti a giocare a Viadana, nella Challenge Cup 2013. Senti veramente il calore delle persone, ti supportano sempre. Poi certo, è facile che ciò accada quando la squadra cresce e ottiene risultati. Ma oltre a questo c’è una componente di storia e tradizione molto sentita e che fa la differenza.

 

 

Quest’anno avete raggiunto ma perso entrambe le semifinali (Premiership e Champions). Cosa vi è mancato?
Un pizzico di esperienza. In semifinale di coppa contro i Saracens siamo andati subito in meta, poi però abbiamo atteso la loro reazione senza imporre il nostro gioco che è fatto di velocità e ritmo alto: se ci incaponiamo a fare testate e cercare ripetutamente l’uno contro uno allora è dura. Ci è mancata un po’ esperienza, cosa che i Saracens hanno da vendere. Con Exeter invece sono state partite combattute tutto l’anno. Anche se abbiamo vinto il quarto di coppa, nella semifinale di campionato in casa loro abbiamo sofferto la pressione e la loro difesa ribaltata: non siamo stati sempre in grado di leggere la situazione creando situazioni che forzassero da parte loro un tipo di difesa diverso.

 

 

Prima di Londra hai giocato a Parigi con il Racing. Come valuti invece quella esperienza?
E’ stata pure quella una grandissima esperienza. Già al tempo del mio arrivo era una squadra ben strutturata, hanno raccolto i frutti solo ora con lo scudetto ma da subito si vedeva che c’era l’intenzione di puntare in alto. Anche lì l’organizzazione è precisa, quasi sfiora la maniacalità e nulla è lasciato al caso. Ma in Inghilterra devo dire questo aspetto di metodologia e costanza è forse ancora più accentuato. Questi anni ai Wasps sono forse stati i miei migliori. Sono arrivato già con la maturità acquisita a Parigi, nel corso delle tre stagioni l’ossatura già collaudata della squadra si è arricchita con arrivi in grado di dare un tocco in più come i fratelli Piutau o George Smith. Mi sono divertito molto, perché andavo in campo con confidenza.

 

 

Quanto hanno influito sul tuo modo di giocare queste diverse esperienze?
Come tallonatore mi sono sempre focalizzato molto sul far giocare la squadra, quindi garantendo possessi dalle fasi di conquista. In questi anni in Premiership ho aumentato la capacità di comunicare in attacco e in difesa, dovendo adattare il modo di giocare a quello inglese che per esempio si basa su una difesa molto più aggressiva rispetto a Francia o Italia. E questo nonostante l’età: più vai avanti e più magari è difficile cambiare o adattare il proprio rugby, prendendo da ogni allenatore tutto ciò che ti può offrire.

 

 

Il Director of Rugby dei Wasps Dai Young ha speso parole di profonda stima nei tuoi confronti al momento di salutare le vespe…
Tra di noi il rapporto è sempre stato buonissimo. Ci siamo incontrati ad un camp estivo in Francia nel 2013 e dopo un allenamento insieme mi ha chiamato chiedendomi quanto mi ci volesse per raggiungerlo in Inghilterra! Ha puntato molto su di me, la squadra soffriva in mischia e touche, che per il rugby sono fasi fondamentali. Devo dire che la squadra riuscì ad acquisire più confidenza, tanto che da punti deboli sono diventati poi nostri punti di forza.

 

 

Ti ha inoltre ringraziato per aver aiutato Ashley Johnson nella transizione da terza linea a tallonatore..
Non mi sono mai intromesso nella scelta di spostarlo tallonatore. Ed è sempre stato Ashley a chiedermi consigli, non mi va di impormi. Ovviamente la mia disponibilità è sempre stata massima, ha sfruttato la mia esperienza per conoscere i trucchetti del mestieri: da terza linea ball carrier a tallonatore c’è una bella differenza! Ha un buon potenziale in quel ruolo, un baricentro basso e margini di miglioramento nonostante abbia ormai trent’anni. Comunque non ci sono mai stati problemi di rivalità, ma una sanissima concorrenza che è fondamentale. E quest’anno aumenterà ancora, con l’arrivo a Coventry di due giovani tallonatori dal grande potenziale come Tommy Taylor e Tom Woolstencroft.

 

 

Quali sono i motivi che ti hanno spinto a tornare in Italia?
Sono sincero, nonostante i nuovi innesti nel ruolo avrei potuto rimanere e Dai me lo ha fatto capire chiaramente. La scelta di andare a Londra è stata fatta anche per conquistare una maglia per la Rugby World Cup 2015 ma così non è stato. Ma la scelta è stata anche personale: ho una bimba di 22 mesi, avremmo potuto vivere un anno a distanza ma ho preferito rientrare per essere insieme.

 

 

A distanza di qualche mese, brucia ancora la non convocazione per la Coppa del Mondo?
Penso di aver dimostrato qualcosa durante le tre stagioni a Londra. Ho collezionato 64 presenze tra coppe e Premiership, guadagnandomi il rispetto di staff e compagni di squadra e costruendomi una solida reputazione. Gli inglesi non regalano nulla, tanto meno ad un giocatore italiano e non credo che in molti si sarebbero messi in gioco a 32 anni in un club come i Wasps. Il Mondiale si è tenuto in Inghilterra, questo era uno stimolo ulteriore a fare bene, ma francamente non ho capito molto le motivazioni di Jacques Brunel, con cui del resto non sono mai riuscito a parlare di persona ma solo una volta al telefono sentendomi dire semplicemente che l’opinione che contava era la sua. In questi anni londinesi ho raggiunto un minutaggio importante e dimostrato che se sono andato in campo un motivo ci sarà pure e che l’età non conta. Lo stesso Dai si è pubblicamente detto sorpreso della mia assenza in Nazionale negli ultimi anni.

 

 

La maglia azzurra è un ricordo, un sogno o un obiettivo?
Sicuramente un obiettivo. Ho parlato con Conor O’Shea, che in queste stagioni mi ha visto giocare in Inghilterra. Io ho dato la mia disponibilità e la prima cosa che mi ha detto è che lui non guarda l’età. Del resto fino a che un atleta si sente in forma e rende in campo non dovrebbe porsi dei limiti e se un rugbista gioca per le Zebre allora può farlo anche per la Nazionale. L’obiettivo è giocare un rugby di alto livello, portando il livello della Premierhsip.

 

 

Hai vissuto gli ultimi tre anni in un club in cui è forte e importante la figura di un Director of Rugby, ruolo che O’Shea ha ricoperto agli Harlequins. Pensi sia la figura giusta non solo per la Nazionale ma per il movimento Italia?
Credo sia molto utile che Conor abbia portato con sé la propria esperienza organizzativa. La figura del Director of Rugby ha proprio questo compito, di gestire e coordinare il lavoro di altre persone in modo che risulti utile per i giocatori. E in questo modo si delega anche parte del lavoro allo staff, che si sente responsabilizzato e cresce. Inoltre il fatto di aver portato in tour un tecnico per franchigia indica chiaramente che impronta vuole dare al suo lavoro.

 

 

C’è un aspetto del modo di organizzare l’attività sportiva in Premiership che più ti ha colpito?
Gli allenamenti e in generale l’attività sono gestiti pensando molto al recupero. Per dire, in Inghilterra se la squadra è stanca, per esempio dopo un lungo viaggio, non si va nemmeno in campo. Allenarsi tanto per allenarsi non esiste.

 

 

Ora ti attende l’avventura alle Zebre. In squadra oltre a te vi sono tre tallonatori: senti di avere un ruolo da “senatore”?
Tutti hanno molto potenziale. Io spero di essere d’aiuto con qualche consiglio, chi nella gestione del lancio, chi piuttosto nel gioco aperto, cercando di aiutarli a crescere evitando che facciano i miei errori. Oliviero Fabiani si è caricato sulle spalle il ruolo nella scorsa stagione, crescendo molto e giocando con continuità che è fondamentale. Tommaso D’Apice sin da più giovane aveva fatto intuire il proprio valore, mentre Andrea Manici lo aspettiamo tutti in campo con grande attesa. Tutti possiamo dire la nostra e ci sarà sana concorrenza.

 

 

Ultima domanda. Chiuderesti la carriera con un anno a L’Aquila?
Non sei il primo che me lo chiede! Valuterò una volta terminato il mio impegno qui alle Zebre. Poi chi lo sa, una partita d’addio ci può sempre stare…

 

Di Roberto Avesani

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