Marco Pastonesi saluta l’Irlanda. Dove l’ovale è a forma di cuore (o viceversa?)
Ogni partita è un viaggio, una storia, un’avventura. E si scopre qualcosa di ignoto. Ogni partita ha un suo ritmo, una sua andatura, un suo respiro. E io mi accorgo di respirare profondo. Ogni partita si traduce in un racconto, un articolo, un incontro. Alberto Ratcliffe: stavolta gioca centro, ci unisce il club, As Rugby Milano, che dà un senso di appartenenza, tradizione, trasmissione. Francesco Modena: secondo centro e capitano, Rovigo, becca una tramvata sul naso, sanguina, viene tamponato, stringe i denti, stringe anche il naso, poi rientra, e ci dà subito dentro. Davide Ruggeri e Stefano Betti: vengono dal Rugby Como, una nuova realtà a questi livelli. Così come Christian Augello: VII Rugby Torino.
Al settantesimo le squadre rimangono in campo, in cerchio, in assemblea, i tecnici parlano ai giocatori, poi i giocatori si fermano a parlare con gli spettatori – a occhio – un’ottantina, qualche altro italiano, poi gli spettatori si fermano lì, come domiciliati o residenti o cittadini del Donnybrook.
La club-house dei Bective Rangers ospita il terzo tempo. Tavoli imbanditi, cucina aperta, volontari pronti. Il tabellone con i presidenti sociali e i giocatori internazionali, i quadri con le maglie storiche, c’è anche quella All Black di Ian Jones.
Mentre Rossi e compagni guadagnano la via degli spogliatoi, io m’incammino – direzione sud – per quella del bed’n’breakfast. Attraversata la strada, si erge la Chiesa del sacro cuore. E se fosse il sacro cuore del rugby? Gli irlandesi sembrano avere sempre qualcosa in più di noi: ma non so se è più voglia e volontà, più abitudine e attitudine, o forse un chilo in mischia, forse una spanna in ascensore, forse mezzo metro al largo, forse cinquant’anni di storia.
di Marco Pastonesi
(fine della terza puntata – fine)
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