In Inghilterra prima azione legale contro un club di Premiership, in Francia le accuse di Cudmore. A Rio invece nuova prevenzione
Le concussion sono da anni uno degli argomenti più delicati in materia di salute dei giocatori di rugby, obbligati a sottoporsi ad un rigido protocollo sia durante che dopo i match in caso di colpo alla testa per poter avere il via libera e tornare in campo. Un argomento molto delicato, che coinvolge incolumità e carriera degli interessati e dai confini molto delicati. Come racconta la vicenda Cillian Willis. Classe 1985, il mediano di mischia irlandese ex Leinster (cugino di Brian O’Driscoll) ha avviato un’azione legale nei confronti dei Sale Sharks, l’ultimo club per cui ha militato prima di ritirarsi all’età di 28 anni. Come riportato dal Daily Mail, il giocatore ha accusato la società di Manchester di aver agito con negligenza nei confronti delle due concussion subite in un match di LV Cup contro i Saracens nel 2013, dopo le quali era sempre stato rimandato in campo dallo staff medico salvo poi essere sostituito definitivamente al quarantasettesimo minuto. Per lui quella partita sarà anche l’ultima della carriera, poiché all’irlandese verrà proibito di tornare nuovamente in campo proprio per i colpi subiti.
Mai, prima d’ora, un giocatore era ricorso alle vie legali contro un club di Premiership per denunciare un’assistenza medica deficitaria. La via, insomma, è tracciata: per la delicatezza dell’argomento e per le numerose concussion subite dai giocatori a livello internazionale, l’affaire Willis potrebbe essere un caso destinato a fare scuola tra i rugbisti (la NFL ne sa qualcosa). Un’altra recente voce di protesta in merito (ma solo verbale) si è alzata per bocca di Jamie Cudmore, 42 cap con la maglia del Canada ed una carriera spesa principalmente al Clermont tra il 2005 ed il 2016. Il seconda linea, passato ora all’Oyonnax, ha inveito contro il suo ex club dalle colonne di Midi Olympique riguardo al trattamento ricevuto dai medici dopo una concussion subita nella semifinale della Champions Cup 2015, contro i Saracens. Stando al racconto di Cudmore, il nordamericano non avrebbe superato il protocollo per le commozioni cerebrali ma è dovuto ritornare in campo quando il suo sostituto si è a sua volta infortunato. Due settimane dopo sarebbe poi sceso in campo nella la finale contro Tolone nonostante l’infortunio.
“Hanno giocato con la mia salute, con il mio futuro – ha tuonato – Non avrebbero dovuto autorizzarmi a rientrare in campo e di giocare la finale”. Una rabbia dovuta anche dalle successive condizioni fisiche di Cudmore, che probabilmente spiegano al meglio la gravità di quanto accaduto: “Mi sentivo stanco anche quando non ne avevo ragione, un po’ depresso e spesso irritabile…Non potevo guardare la tv per troppo tempo e quando i miei bambini giocavano ero costretto ad uscire dalla stanza. Ogni minimo rumore martoriava le mie tempie. Sinceramente ho anche pensato di smettere di giocare. Ero esausto e non riuscivo a dormire. È stato davvero strano. Rifiutarmi di scendere in campo? Per un giocatore di rugby è inconcepibile“. Cudmore, poi si scaglia anche contro l’intero sistema francese: “Sembra di essere negli anni ’70. Si subisce un colpo? Si resta fermi per tre settimane. Bisogna cambiare l’atteggiamento del rugby francese rispetto ai traumi. I giocatori sono in pericolo“.
Da Clermont la risposta non si è fatta attendere. Per il club dell’Auvergne si è esposto in prima persona il coach Franck Azéma, che ha ribadito la propria fiducia nello staff medico de Les Jaunards. “In quelle occasioni il protocollo ha dato l’ok per poter far rientrare in campo il giocatore. In nessun modo abbiamo messo pressione ai dottori e nemmeno i dottori hanno messo pressione su Jamie affinché rientrasse in campo”. Il tecnico francese, inoltre, non perde l’occasione per lanciare anche una stilettata al suo ex giocatore (“È bello che Jamie si metta al servizio di questa causa e che non si sia posto alcuna preoccupazione per giocare in Coppa del Mondo, ritornare in campionato e firmare un nuovo contatto…”), ma non sottovaluta il problema reale delle concussion: “Cerchiamo di preparare meglio fisicamente i giocatori e di rinforzare le protezioni. Bisogna tenere conto del loro corpo. Da quattro anni abbiamo una serie di test da ripetere ogni settimana – spiega Azéma – Tutti i lunedì i ragazzi ci danno le impressioni sul loro sonno, sull’appetito e su questi aspetti basici. Misuriamo il livello del CPK (un enzima utilizzato nelle cellule muscolari) e il loro livello della proteina S100, la cui concentrazione aumenta nel momento in cui è presente un trauma. Siamo sempre all’erta sulla salute dei nostri giocatori, non ci permetteremmo mai di metterli in pericolo”.
I test effettuati a Clermont, naturalmente, non sono le uniche innovazioni in materia di concussion. Lo studio della relazione tra impatti in campo e conseguente commozioni cerebrali è all’ordine del giorno nell’intera Ovalia, sia a livello di World Rugby sia a livello ‘locale’, come nel caso della provincia di Otago in Nuova Zelanda (la base degli Highlanders, per intenderci). Come riporta stuff.co.nz, l’università della regione, insieme alla compagnia CSx di Auckland (specializzata proprio nel ricercare soluzioni in merito alle concussion), ha sviluppato un microchip per misurare la potenza degli impatti a livello cranico e, in ultima analisi, per misurare il rapporto tra le collisioni e la resistenza del collo. In quest’ultimo, infatti, una maggiore forza potrebbe abbassare le probabilità che un giocatore subisca una commozione cerebrale. L’originale apparecchio, non più grande di una moneta da due dollari, è stato inserito nelle magliette dei giocatori dell’Otago Rugby per la prima volta nell’ultimo match di Mitre 10 Cup contro Wellington risalente a giovedì, con il supporto della Federazione neozelandese. “Proveremo ad avere una comprensione degli impatti che accadranno nel corso di una partita – ha spiegato la dottoressa Danielle Salmon, ricercatrice dell’Otago – Segnaleremo se un giocatore dovesse accusare una concussion e, mentre raccoglieremo i dati, avremo una migliore comprensione dell’esistenza di un certo limite e se questo dovesse aumentare il rischio. Può essere uno strumento utilizzabile anche da un fisioterapista”.
La compagnia CSx, inoltre, è stata una delle protagoniste passate sotto traccia anche a Rio 2016. Su iniziativa di World Rugby, l’azienda neozelandese ha fornito dei software per semplificare la registrazione e la gestione degli infortuni alla testa, in modo da fornire assistenza agli staff medici in uno sport dalle tempistiche particolari come il Sevens. I dottori hanno potuto beneficiare di dati in tempo reale provenienti dal campo; di una velocizzazione della diagnosi, al massimo entro le 36-48 ore dopo il colpo ricevuto e di una raccolta di dati per uno scopo di ricerca. Non solo polemiche insomma, ma anche progressi tecnologici e medici, in particolare nel campo della prevenzione. A prescindere dai casi di Willis e Cudmore, tuttavia, sarebbe fondamentale un passo in avanti anche dal punto di vista del buon senso sia agli altissimi livelli di cui abbiamo parlato sia via via scendendo verso la parte bassa della piramide: in Australia sono stati avviati programmi per sensibilizzare sulla materia i cosiddetti “Weekend warriors” (i giocatori amatoriali, soprattutto di Aussie Rules).
di Daniele Pansardi
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