Nella storia esistono gli eroi fatti e quelli mancati. Phil Waugh è uno di questi
Mi trovo al centro di un campo da gioco. È un campo da rugby. Riesco a distinguere a malapena la acca nella parte di campo che ho di fronte. Sono in uno stadio. È certamente uno stadio. Uno stadio vuoto. Sono al centro di uno stadio vuoto e nonostante non riesca a vedere il sole, sento caldo. Un caldo terribile. Il calore si concentra nella testa e si irradia via via verso la periferia del mio corpo. Passando per lo sterno. Dalla testa al cuore, alle mani. Le mani. I polpastrelli delle mie dita sono bollenti. Odore di eucalipto arriva al mio naso. Lentamente le dita si trasformano in rami, prima, poi tronchi e foglie sovrastano la mia testa. E le braccia protese verso l’alto, come a chiedere perdono o aiuto a un qualsiasi dio. Poi sono albero. Eucalipto. Come quegli arbusti che attraverso i loro raggi verso il sole, fermavano i nostri palloni ovali da bambini. Ci costringevano ad arrampicarci o, alle brutte, a rubarne un altro dal campo di allenamento.
Sveglio. Stanco. Quasi avessi giocato una finale di Rugby World Cup.
Sono passati tredici anni ma ancora sogno di essere pianta per fermare quel maledetto drop. Maledetto. Quella medaglia dedicata a John Eales attaccata allo specchio con accanto quella foto sono lì a ricordarmi che nella storia ci sono i vinti e i vincitori. Gli eroi fatti e quelli mancati.
Vero. Ma non si può perdere una finale dei Mondiali, giocata in Australia, casa tua, a Sidney, città in cui sei nato. Al minuto numero 100. Per colpa di un maledetto drop.Maledetto. “Guardate cosa hanno fatto all’Australia questi inglesi bastardi. Hanno preso il nostro acciaio, la nostra acqua, il nostro ferro” … I nostri sogni. I miei sogni. Ma no. No. Quella è un altra storia, una vicenda tutta europea. Con l’Australia non c’entra nulla.
Eppure quella è stata l’unica finale della mia vita. Una vita donata al rugby. Ai Waratahs. Ai Wallabies. Per cui si: maledetti inglesi, maledetto Jonny, maledetto piede destro. Il piede destro, lui che è mancino. Una finale di Rugby World Cup, giocata in Australia, a Sydney, a casa. Persa al minuto 100 per il drop di destro, di un mancino. Il destino ha il piede caldo e spesso è ambidestro.
Nella foto che ho appeso in camera, sullo specchio, il tempo è fermo. Immobile. Il cronometro segna 99 minuti e 50 secondi. In quell’istante catturato, virtualmente, sono ancora un plausibile campione del mondo. Forse per quello la tengo ancora appiccicata a quello specchio. Vicino a quella medaglia appesa.
Guardando quella istantanea tutti si concentrano su quel numero 10 biondino entrato nella storia. Ma lì, in quello scatto, ci sono anche io. Eccomi. Con le braccia protese verso il cielo, come a chiedere perdono o aiuto a un qualsiasi dio. Come a tentare di diventare albero e fermare quel pallone. Come quegli eucalipti che attraverso i loro raggi verso il sole, fermavano i nostri ovali da bambini. Ci costringevano ad arrampicarci o, alle brutte, a rubarne un altro dal campo di allenamento. Ci sono io nell’ultimo gesto disperato. Quello che se quel dio a cui stai chiedendo aiuto, ci mette una buona parola, ti fa entrare nella storia. Da eroe.
Ma nella storia ci sono i vinti e i vincitori. Gli eroi fatti e quelli mancati.
Io sono uno di quelli a cui è mancato poco. Dieci secondi, più o meno. Ma fanno la differenza. Tutta la differenza che passa tra l’uomo e la pianta.
Andrea Papale
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