L’ex ct delle Fiji 7s rilancia il problema di “agenti non autorizzati” che svuotano le isole dei migliori talenti. E World Rugby…
Il quadro politico e rugbistico dei tre piccoli arcipelaghi del Pacifico – Fiji, Samoa, Tonga – è tristemente noto. Oltre alle difficoltà economiche, finanziarie delle rispettive Federazioni (che non navigano esattamente nell’oro), da anni tutti i tre Stati sono ‘scippati’ dei loro migliori prospetti e dei loro migliori talenti dagli osservatori delle altre Union, che possono garantire loro un contratto professionistico, una qualità della vita inesorabilmente migliore e l’ascesa al rugby mondiale. Un fenomeno, quello del poaching, a cui l’IRB prima e World Rugby poi non hanno messo ancora un freno. E intanto tali pratiche, nel corso del tempo, sono diventate invasive e fin troppo abituali da parte di nazioni come l’Inghilterra, la Nuova Zelanda e l’Australia, mentre la Francia aveva addirittura piantato le tende nelle isole Fiji con delle Accademie gestite da Clermont e Brive. La situazione, insomma, sembrerebbe essere sfuggita di mano al board internazionale. E non da poco.
L’ennesimo grido di allarme è arrivato da una delle personalità ormai più celebri delle isole Fiji, l’ex coach della nazionale di rugby a 7 Ben Ryan, capace di condurre i suoi alla prima medaglia (d’oro, per giunta) nella storia delle Olimpiadi. L’inglese, in un’intervista alla BBC, ha denunciato la presenza sull’isola di “procuratori non autorizzati” che svuotano la nazione isolana dei giocatori di Sevens più promettenti, persuasi dalle false promesse di queste “persone disoneste”. Il 45enne non ha usato mezze misure: “Chiunque può fare qualunque cosa, è come se fosse il Far West. […] Giocare in Premiership ed andare nel Regno Unito è più difficile, per cui i francesi stanno prendendo chiunque”. Spostando l’attenzione, invece, sui ‘vicini di casa’ come Nuova Zelanda ed Australia, Ryan non è certo meno aspro: “In Nuova Zelanda e nella ITM Cup i giocatori isolani non vengono presi a meno che non siano capaci di diventare dei possibili All Blacks. A quei giocatori viene fatto firmare un contratto sventolato di fronte a loro prima, dopodiché non tornano più a giocare per le Fiji. In Australia è la stessa cosa” – spiega un amareggiato Ryan. E proprio a proposito delle franchigie australiane, il britannico sentenzia: “Entro dieci anni, se le cose non dovessero cambiare, vedrò una squadra australiana con almeno metà team rappresentato da giocatori provenienti dalle isole”.
La pesca nel Pacifico, insomma, continua ininterrotta, anche se quantomeno in Francia le nuove regole sui Jiff potrebbero (dovrebbero…) limitare il raggio d’azione degli scout transalpini. Una mossa che può essere definita un cambio di rotta soltanto indirettamente, poiché alla base di tale provvedimento non c’era la volontà da parte della LNR di ‘bloccare’ il lavoro svolto sulle isole, bensì quello di limitare gli stranieri militanti nel Top 14. E la differenza, in questo senso, è sostanziale. I segnali della vera svolta sono attesi da World Rugby, il cui vice-presidente Agustin Pichot ha già impugnato con forza la questione delle regole sull’eleggibilità lasciando presagire delle possibili azioni in futuro: “Dobbiamo cambiare la regola” – ha dichiarato l’argentino a maggio – “Credo non sia giusto, capirei già di più una regola di cinque anni… Nei prossimi sei mesi ne discuteremo, è sull’agenda”. Per Pichot l’obiettivo sarebbe chiaro: evitare che le nazionali più forti facciano la parte del lupo con le più deboli, svuotandole delle loro future stelle e contribuendo ad aumentare il già notevole divario tra Tier One e Tier Two. I tempi per le riforme sembrano maturi, soprattutto se ai vertici del massimo organismo internazionale le intenzioni sono quelle sopraccitate. E intanto nel Pacifico sperano.
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