Istituito il gruppo di lavoro che avrà il compito di rivedere il regolamento “nella sua totalità”
“La Regola 8.1(c) richiede che un giocatore completi un periodo di residenza pari a 36 mesi prima di poter giocare (per una nazionale, ndr). La residenza è definita come “il luogo in cui il giocatore ha la propria dimora principale” […] Come in ogni processo di naturalizzazione, un numero di fattori determinano il rispetto del criterio di residenza: tra questi, il tempo speso nel paese e i motivi di ogni assenza. Essere residente per un periodo di 36 mesi prima dell’eventuale esordio con la maglia di una Federazione, permette al giocatore di acquisire un credibile e assodato legame con il paese e con la relativa Federazione e ciò permette lui di partecipare a competizioni sportive rappresentando quel paese e quella Federazione”. Così recita la tanto criticata regola 8.1, che indica le linee guida in termini di eleggibilità per residenza. Un regolamento che a molti ha spesso fatto storcere il naso: se è vero che paesi come il Sudafrica possono permettersi di perdere il CJ Stander o il Van Schalkwyk di turno, o la Nuova Zelanda i vari Rodney Ah You o Jared Payne, diverso è per quelle federazioni minori per potere economico e bacino di giocatori (le isolane, per esempio) che si vedono sottrarre propri giocatori per magari ritrovarseli 36 mesi dopo da avversari in campo internazionale ma con la maglia diversa. Ma la regola così come la conosciamo ha però avere le ore contate.
In questi giorni si sono tenuti a Buenos Aires una serie di incontri organizzati dal nuovo board di World Rugby, guidato dal Presidente Bill Beaumont e dal suo Vice, l’argentino Augustin Pichot, assieme alle varie Commissioni che compongono il massimo organismo di Ovalia. E il tema più caldo di cui si è discusso è proprio quello dei 36 mesi. “La Commissione Esecutiva ha istituito con effetto immediato un gruppo di lavoro che dovrà rivedere la regola nella sua totalità“, si legge nel comunicato stampa diffuso. Senza scordare che le prime parole ufficiale di Pichot da Vice Presidente erano state un duro attacco all’attuale regolamento: “E’ importante per le nazioni avere una propria identità e da un punto di vista culturale è motivo di ispirazione per i più piccoli. Prendere un giocatore, per esempio tongano, mettergli la maglia di un’Accademia e vederlo giocare per l’Irlanda, beh sono contro a tutto ciò”. All’ultima Rugby World Cup, per fare qualche esempio, l’Argentina era l’unica squadra senza giocatori eleggibili per residenza, seguita da Sudafrica e Uruguay con solo un giocatore. Neanche troppo scalpore aveva destato il caso di Josh Strauss, divenuto eleggibile per giocare con la Scozia in data 20 settembre 2015, tre giorni prima del debutto iridato della sua Nazionale contro il Giappone.
Questo il punto di vista di World Rugby. Dall’altra parte della barricata vi sono le federazioni, molte delle quali favorevoli invece alla regola così come scritta: “Siamo soddisfatti dei tre anni – ha dichiarato in maggio a The42.ie Philip Browne, CEO della Irish Rugby Football Union – Agustín Pichot ha la sua opinione, altre federazioni la loro. Con alcune abbiamo discusso e anche per loro va bene lo status quo”. Ma con un board di Ovalia rinnovato, con un Consiglio (dove l’Italia ha guadagnato due posti) in cui dal 2016 siedono anche un rappresentante della Romania, uno della Georgia e uno di Oceania Rugby (che comprende le isolane), tutto dovrebbe essere più facile. Prossimo passo gli incontri di novembre. Da cui potrebbero arrivare le prime novità su un tema che tanto fa discutere.
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