Abbiamo intervistato il trequarti milanese. Che lascia alle spalle Treviso, mancate convocazioni e due numeri di maglia…
Dopo due stagioni alla Benetton si è spostato poco più a sud per indossare la maglia del Petrarca, dove ha ritrovato “il piacere di giocare” nelle posizioni in campo in cui meglio si esprime. E guai a parlare di passo indietro. Simone Ragusi, trequarti milanese classe 1992 nato in una famiglia che più ovale non si può (rimandiamo al ritratto di Marco Pastonesi), ci ha raccontato l’inizio di stagione a Padova, i motivi dell’addio a Treviso e i piani per il futuro.
Come sta andando l’inizio di stagione a Padova, sia a livello di squadra che personale?
Personalmente sono contentissimo. La squadra è un ottimo gruppo di giocatori umili e che lavorano tanto. Non è vero che siamo i più forti, perché ci sono squadre come Rovigo e Calvisano molto preparate: molti hanno scritto che la società è stata protagonista con una campagna acquisti di livello, ma se siamo considerati i favoriti dobbiamo dimostrarlo sul campo. Lavoreremo affinché i risultati arrivino, con massima umiltà e obiettivi importanti che faremo di tutto per raggiungere.
Qui a Padova mi trovo benissimo, gioco in ruoli in cui mi piace giocare e dove mi posso esprimere al meglio, cosa che in passato non accadeva. C’è un’ottima sintonia dovuta anche al fatto che siamo tanti ragazzi giovani: contro alcuni ho giocato nel corso delle giovanili, come Conforti, Menniti-Ippolito, Bacchin, Rossi, Nostran. E’ piacevole allenarsi, andare in trasferta, risolvere assieme eventuali problemi…Una squadra può avere anche tantissimi talenti ma se non vanno d’accordo è dura.
Cosa ti ha convinto a scegliere questa strada?
Ho creduto in Andrea Cavinato e in più ho la possibilità di frequentare l’Università (Scienze Politiche). Ma soprattutto, l’ultimo anno a Treviso avevo un po’ perso il piacere di giocare. In due anni purtroppo delle partite che ho giocato la percentuale di vittorie è stata del 5% e se perdi e non competi è difficile mantenere il piacere di giocare. Nel campionato di Eccellenza c’è competitività, c’è quel senso di appartenenza che si crea giocando città contro città. Gioco per Padova, sabato c’è il derby contro Rovigo ed è una delle partite più sentite. Certamente anche in Celtic League hai stimoli, ci mancherebbe, ma da questo punto di vista il campionato italiano dà di più. Poi ovviamente se giochi bene in Celtic hai più possibilità di giocare in Nazionale…
Pensi che sia un limite molto forte del campionato celtico? E quale Eccellenza hai ritrovato?
Il problema della Celtic è proprio questo, che si gioca per la Nazionale. In Eccellenza invece si gioca per vincere il campionato, con senso di appartenenza. Per questo dico che tutt’ora è un ottimo campionato: e molti giocatori militano in Celtic, chissà quanto bello sarebbe con loro. Magari mi dà fastidio vedere pochi spettatori sugli spalti, perché le partite sono belle e combattute, ma ovviamente tutto ciò non dipende da me.
Hai inoltre ritrovato il ruolo di apertura, quello per te più naturale…
Nelle giovanili ero numero dieci, ma anche centro ed estremo. Come apertura diciamo che sono un po’ individualista: talvolta sono il primo a dire che un dieci deve essere più ordinato, ma questo individualismo lo vedo anche come un pregio. Poi certo, con questo non voglio dire che mi reputo una grande apertura: mi sono messo a disposizione della squadra, tutto qui. Contro la Lazio ho giocato dieci per la quarta volta tra pre season e campionato.
Alla Benetton invece eri visto soprattutto come ala…
A Treviso sono arrivato come estremo, ma in quel ruolo c’era Hayward e sono stato spostato all’ala. Il secondo anno con il rientro di altri giocatori sono scivolato indietro nelle gerarchie. Non mi sentivo nella condizione di potermi proporre in altri ruoli, né ho mai avuto la possibilità di farlo. Un forte contraccolpo psicologico è stato anche il mancato esordio in Nazionale: ero stato convocato per i Test Match di novembre 2014, poi per il Sei Nazioni 2015 e per i Mondiali ma senza fare mai una presenza se non nove volte in tribuna. Nel frattempo esordivano in tanti, pensavo ogni volta che fosse la giornata buona, mi sentivo bene ma non è arrivata la possibilità che speravo di avere. Psicologicamente ha pesato molto e influenzato la mia stagione a Treviso.
Ha influenzato anche la tua scelta di tornare in Eccellenza?
Per qualcuno può essere una cosa triste o deprimente, ma al contrario mi sentivo così l’anno scorso, soprattutto nella parte finale. Ho considerato il non aver esordito e il fatto che preferivano sempre gli altri come un fallimento. Essere tornato in Eccellenza non è un fallimento ma un’opportunità e questo è il messaggio che mi sento di dare. E non è un tornare in basso: è fare un passo indietro per correre di nuovo di più.
Anche perché non è vero che solo dalla Celtic si arriva in Nazionale…
Ognuno ha il suo percorso e io voglio costruirmi il mio. Non sono tornato indietro per la Nazionale o per la Celtic, ma per ritrovare il piacere di giocare nelle posizioni in cui mi riesce meglio e per specializzarmi in quei ruoli. Poi tutto si vedrà, ma la vivo veramente in maniera molto tranquilla, il resto è tutto una conseguenza. Gioco con piacere, mi diverto…E studio, che significa pensare al futuro, che per un rugbista non è di poco contro.
Come è stato l’approccio con coach Cavinato e in generale con il mondo del Petrarca?
Non l’ho mai avuto come allenatore, se non durante la Nations Cup con la Emergenti quindi poche settimane. Conosco il suo albo, ha grande competenza, doti umane e tecniche. Mi viene da dire soprattutto umane, che negli allenatori fanno la differenza. Dimostra di saper gestire un gruppo giovane e il fatto che non sia di Padova ha rimarcato ancora maggiormente il senso si appartenenza che tutti dobbiamo avere. Lui l’ha acquisito e lo trasmette come un valore aggiunto: ma devo dire che qui è facile ambientarsi, incontri al club persone che hanno fatto la storia della società, ci parli, capisci il loro passato, ti mostrano le foto d’archivio…Trovo tutto ciò una cosa importantissima, essenziale per il nostro sport.
Di Roberto Avesani
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