Club Italia e Alps Hockey League: uno sguardo oltre i confini di Ovalia

Due risposte ad altrettante problematiche comuni: salto nel professionismo e competitività

Club Italia

ph. Loris Marini

Oggi prendiamo una pausa dalla palla ovale per fare un breve viaggio in altri due sport di squadra: pallavolo femminile e hockey su ghiaccio. Perché lo facciamo? Perché tante altre discipline condividono con il rugby medesime problematiche, come ad esempio la formazione dei migliori giovani che si preparano al salto nell’alto livello e la ricerca di una struttura di campionato in grado di garantire una corrispondenza tra competitività interna e a livello internazionale.

 

 

Club Italia: il trampolino per il professionismo

Nato nel 1998 per volontà della Federazione Italiana Pallavolo, il Club Italia è un progetto tecnico che ha l’obiettivo di riunire e formare le migliori giovani atlete italiane, selezionate dai club di tutta la Penisola. Dopo tanti campionati tra B2, B1 e A2, nel 2015 la squadra è stata iscritta di diritto alla Serie A1: l’età media delle giocatrici selezionate è cresciuta dai 15-16 ai 17-20 anni (l’anno medio di nascita della rosa 2016/17 è il 1998, ma si spazia dal 1995 al 2002) ed in parte è cambiato anche l’obiettivo del Club Italia. Non più formazione di atlete ancora giovani ma sviluppo ultimo di atlete con basi tecniche già forti e loro supporto nel decisivo momento del passaggio all’alto livello. L’organizzazione è del tutto simile a quella dell’Accademia Francescato, con scuola, allenamenti e partite la domenica. Cambiano il livello di competizione, la durata del ciclo che non è fissa ma stabilita in base all’effettiva maturazione della giocatrice e la forte continuità con la nazionale juniores Under 20, di cui si configura quasi come l’ideale proseguimento a livello di club.

Da due stagioni, ovvero da quando la squadra è stata iscritta in A1, allenatore del Club Italia è Cristiano Lucchi, classe 1977 e anche attuale interim coach della Nazionale Maggiore Femminile. Lo abbiamo intervistato per mettere in evidenza le caratteristiche di Club Italia, i suoi obiettivi e il ruolo che ha nel definitivo approdo delle sue giovani atlete ai più alti livelli del professionismo.

 

Perché è nato il progetto Club Italia e quali sono i suoi obiettivi?
E’ un progetto riferito alla strutturazione del talento che mira all’alto livello: l’obiettivo è diventare una forte giocatrice di Serie A e nella massima espressione anche convocabile per la nazionale. L’anno scorso si è deciso di indirizzarlo a giocatrici più grandi, dai 17 fino ai 20 anni, per permettere loro di fare l’ultimo salto di qualità confrontandosi con il campionato di A1. Prima il progetto era rivolto ad una fascia di età inferiore, dai 15 ai 16 anni: poi invece abbiamo capito che era necessario accompagnare le ragazze per l’ultimo salto di qualità, perché magari uscivano da Club Italia e ancora non trovavano squadre disposte a fidarsi di loro. Ed è una scelta giusta e che sta decisamente pagando.

 

Il livello a cui tende è davvero molto alto
Questa scelta federale guarda al futuro della nostra nazionale: chiaro che se come l’anno scorso riusciamo a coinvolgere sei giocatrici nella nazionale seniores, allora abbiamo fatto centro. L’idea è quella di accelerare il processo di crescita e capire se certe giocatrici sono in grado di mantenere questo alto livello.

 

Le giocatrici selezionate hanno già un buon livello di base. Il vostro è più un “affinamento”, corretto?
La base tecnica è già fatta, noi permettiamo di continuare il lavoro con le modalità dell’alto livello, per esempio con molto studio tecnico e analisi delle situazioni tattiche. Questo è un aspetto per noi molto importante, mettere le giocatrici nella condizioni di saper leggere le situazioni tattiche che si verificano nell’alto livello.

 

La crescita delle giocatrici è più importante del risultato del campo?
Chiaro che vincere aiuta, fa morale e piace sempre. Ma il nostro obiettivo è il confronto con l’alto livello e capire il talento delle ragazze, che non si sviluppa se è confrontato con il proprio livello. L’anno scorso è stata la prova del nove: in A1 ci sono straniere forti e giocatrici talentuose, ma le ragazze hanno accettato il confronto e dimostrato le potenzialità raggiungendo l’undicesimo posto e la conferma della categoria.

 

Qual è il vostro legame con la Nazionale Under 20?
In diversi casi le ragazze hanno già esperienza nella Nazionale Under 20. Sono giocatrici che magari troverebbero posto nelle rose di altre squadre di A1 o più facilmente di A2, ma magari gli staff non si fiderebbero a farle giocare e farebbero molti minuti in panchina. E’ una sorta di nazionale juniores di club: le atlete escono dalla nazionale Juniores, dove arrivano militando in A2 o B1, ed entrano nel Club Italia per affinare la loro crescita. Diverse ragazze uscite hanno poi trovato spazio in squadre di A1 e la domanda è: quante sarebbero arrivate a quel livello se non fossero passate dal Club Italia?

 

Le ragazze che sono passate dalla nazionale juniores che carriera di club hanno?
Succede che chi passa dalla nazionale juniores poi venga dimenticata o perda la strada verso l’alto livello proprio perché non ci sono squadre disposte a puntare su di loro. Noi vogliamo invece che la giocatrice si senta gli occhi addosso in senso positivo e che capisca che se è arrivata alla nazionale juniores è perché ha delle potenzialità che noi vogliamo sviluppare e far emergere. E per questo è giusto si continui a lavorare assieme a loro.

 

Per la atlete poi c’è anche la possibilità di farsi notare dalle squadre avversarie…
Si fanno le ossa, esprimono il loro potenziale e le altre squadre contro cui giochiamo le notano. E questo è il nostro traguardo: formare giocatrici in grado di confrontarsi con quel livello e si spera con quello ancora più alto della nazionale. Si può dire sia una sorta di incubatore che accoglie atlete e permette loro, ma anche a noi staff tecnico, di capire se possono tenere quel livello.

 

Le ragazze che escono da Club Italia hanno vincoli di militanza?
Quando una ragazza esce è libera di andare anche all’estero, come una giocatrice ordinaria che riceve un’offerta.

 

Per il movimento è una vittoria o una sconfitta?
Se dopo due o tre anni al Club Italia una ragazza va all’estero, in un club che fa Coppe Europee, con giocatrici importantissime, significa che abbiamo fatto bene il nostro lavoro e quel passo sarà un’ulteriore crescita per l’atleta stessa e in caso anche per la nazionale. Chiaro che si priva il campionato italiano di una giocatrice, ma stiamo parlando di ragazze giovani che hanno la possibilità di confrontarsi con tornei di massimo livello e per loro non può che essere un bene.

 

Da allenatore, come si gestisce una squadra la cui rosa cambia parecchio e senza “senatrici” di esperienza?
Quando finisce il lavoro di formazione andiamo a cercare altre ragazze con cui avviare il processo. Ed è giusto che il ciclo si concluda e che le ragazze vadano in altri club di Serie A: quest’anno, per esempio, ne sono uscite sei ed entrate altre. La metodologia di lavoro dipende dalle qualità delle atlete e dalle situazioni tecniche che vogliamo sviluppare. In generale, rispetto magari ad un club di A1 con giocatrici più esperte, noi chiediamo un passaggio tecnico forte.

 

Quello che offrite è un ambiente di altissimo livello, sia a livello di staff che di strutture
La Federazione mi mette nelle condizioni di lavorare con staff di primo livello e che permettono di seguire il percorso di crescita a tutto tondo. E’ un investimento forte, ma sicuramente diamo qualcosa di più di ciò a cui la giocatrice è abituata venendo magari dall’A2 o dalla B1. Abbiamo la possibilità di strutturare e organizzare il lavoro nel miglior modo possibile.

 

Come è organizzato il momento scolastico?
Dobbiamo essere bravi a fare un planning degli allenamenti che rispetti i tempi scolastici, come per esempio i rientri. Prendiamo accordi con i vari presidi, le ragazze sono seguite da tutor e due volte la settimana, per esempio, escono prima per il lavoro in palestra. Inutile nasconderlo: per le ragazze è davvero un grosso impegno e quasi tutte frequentano la scuola pubblica, dove talvolta le esigenze sportive non riscuotono l’importanza dovuta. Noi allenatori dobbiamo essere bravi a modulare le settimane in base alle interrogazioni, ai compiti in classe…

 

Le ragazze riescono a far fronte a questo impegno?
Quest’anno per esempio ho capito che se non dai alle ragazze due giorni di stacco fisico e mentale ogni 20 giorni, poi a gennaio arrivano stanche e scariche. Anche perché gli allenamenti richiedono molto impegno e non solo fisico: si vuole insegnare a vivere la partita di A1, c’è il momento dell’analisi video, ci sono lezioni tattiche e sul gioco degli avversari. C’è un grande sforzo mentale. E se in una giornata sommi le ore a scuola la mattina, l’allenamento e lo studio nel pomeriggio, si capisce l’entità dello sforzo.

 

E’ difficile riuscire a gestire tutte le diverse esigenze?
La prima cosa che dico alle ragazze è di tenere duro e di organizzarsi al meglio, e di riposarsi per non rischiare di strafare. Poi dal punto di vista del gruppo è una vita quasi collegiale e dobbiamo essere attenti a lasciar loro i propri spazi: a 16, 17 e 18 anni il tempo libero è necessario per svagarsi, per incontrare la famiglia, le amiche o il proprio ragazzo. Non è facile perché c’è poco tempo e per questo ogni 20 giorni diamo due giorni completamente liberi.

 

Hanno a disposizione figure di supporto?
Premetto di essere convinto che la figura del mental coach possa dare una grossa mano nell’attività di uno sportivo professionista. Ma a quest’età sono convinto che potrebbe aiutare solo fino ad un certo punto: ci siamo noi, la scuola, le famiglie e rischiamo di avere troppe situazioni che possono condizionare o comunque forzarne il modo di pensare. Le ragazze rischierebbero forse di essere stressate e magari di veder “sconvolto” il proprio modo di ragionare e vedere le cose.

 

Il livello di A1 è molto alto anche da altri punti di vista. Palazzetti pieni, dirette televisive, interviste, un buon seguito mediatico…
Anche questo è un passaggio richiesto. La crescita e la maturazione di un giovane atleta passano anche dal confronto con il giornalista, dallo scendere in campo davanti a molti spettatori. E’ sicuramente un passaggio di notevole importanza e che Club Italia aiuta a fare. A livello inferiore magari non si confronterebbero con così tante figure, dai dirigenti ai media. Qui si impara a vivere a 360° da atleta e vogliamo formare una giocatrice completa sotto tutti i punti di vista.

 

Certo è che la prospettiva di diventare una giocatrice professionista è concreta e reale
La ragazza si rende conto se questa è la sua passione, oppure dopo due anni a Club Italia capisce di voler perseguire altre strade o altri livelli meno impegnativi. Noi le mettiamo di fronte ad un possibile futuro lavoro, mostriamo esigenze e richieste della pallavolo professionistica: per noi non è un obbligo farle diventare tutte giocatrici professioniste, ma è chiaro che vogliamo che abbiano tutti gli strumenti perché ciò possa accadere e per valutare se questa è la strada che vogliono seguire. Poi però sta a loro capire se hanno la voglia mentale e la volontà per farlo.

 

 

La Alps Hockey League: ringiovanire e puntare sui giovani è una necessità

Cosa hanno in comune hockey su ghiaccio e rugby? Entrambi si sono rivolti in tempi recenti a campionato esteri per risolvere un problema di competitività interna e che si rifletteva anche a livello internazionale. La palla ovale con l’ingresso in Celtic League nel 2010, lo sport del puck con quello nella Alps Hockey League a partire dalla stagione 2016/17.

 

La nazionale di hockey su ghiaccio ha sofferto in anni recenti uno scarso attaccamento da parte dei tifosi, molto legati alla propria squadra del cuore ma restii ad accendersi per la selezione azzurra. Tra le cause, anche il massiccio impiego di giocatori oriundi per lo più a fine carriera e la mancata convocazione di giovani provenienti dai club: con la conseguenza di bloccare in parte la crescita di quest’ultimi e di non riuscire ad affezionare gli storici tifosi delle società.

 

ph. Vasily Fedosenko/Action Images

ph. Vasily Fedosenko/Action Images

Una situazione di stallo e di generale stanca che si rifletteva anche nella struttura del massimo campionato nazionale. La Serie A 2015/16 è stata organizzata ad otto squadre, a fronte delle dodici dell’annata precedente: tutte e otto hanno disputato la fase finale dei playoff al termine della stagione regolare, che dal punto di vista della competizione è servita solo per stabilire gli accoppiamenti dei quarti di finale e la composizione del tabellone. Delle otto partecipanti, sette avevano sede tra Trentino Alto-Adige e Veneto settentrionale, con Valpellice (Torino) unica squadra fuori raggio. Una situazione che geograficamente ricorda da vicino quella dell’Eccellenza.

 

Dalla stagione 2016/17 e almeno fino al 2019 le cose sono radicalmente cambiate. Nella primavera di quest’anno è stata fondata la Alps Hockey League (da qui in avanti AHL): al neonato campionato partecipano le squadre della Serie B austriaca (alcune formazioni sono Seconde Squadre di compagini della Serie A austriaca, come nel caso di Salisburgo), otto squadre italiane (tutte provenienti dall’area Trentina, Alto Atesina e Veneta) e una slovena. Non senza polemiche e discussioni, le squadre hanno scelto di non partecipare ad una Serie A considerata poco attrattiva, in calo di spettatori e “ripetitiva” dal punto di vista della formula con le solite otto squadre ad affrontarsi tre volte in campionato e in Coppa Italia. Al termine dell’AHL le quattro italiane meglio classificate parteciperanno ad una final four che assegnerà lo scudetto italiano.
Una strada, quella oltre il Brennero, che già Bolzano aveva scelto di intraprendere nel 2013, anno in cui ha lasciato il campionato italiano per iscriversi alla EBEL (Serie A austriaca). Ma torniamo alla AHL.

 

Il passaggio alla neonata competizione, le cui spese di partecipazione sono per evidenti motivi superiori da sostenere, hanno portato le squadre a ridurre il numero di stranieri puntando maggiormente sulla valorizzazione dei propri settori giovanili: le società hanno pertanto sfoltito il numero di stranieri e ringiovanito le rose, anche per le direttive federali che impongono il limite di quattro stranieri e un oriundo.

 

Parlando a Repubblica della decisione, il responsabile del settore hockey della Federghiaccio Tommaso Teofoli ha citato l’esempio del rugby e della scelta di entrare in Celtic League: “E’ un precedente che abbiamo studiato con attenzione – ha dichiarato – Lì c’è una nazionale fortissima mediaticamente, che riempie stadi di calcio quando gioca, anche se poi in campo prende sberle quasi sempre. E poi ci sono squadre che invece sono seguite da pochi appassionati. Da noi invece la situazione è quasi l’opposto: i nostri team sono seguiti da un buon pubblico, ma dobbiamo lavorare molto sui mass media, la AHL serve anche a questo, oltre che a fare crescere i giovani”.

 

Di Roberto Avesani

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