Se Treviso e Zebre perdono 46-3 e 49-5 contro Munster, una squadra composta per l’80% da loro giocatori può competere con l’Irlanda?
Ci sono voluti diciassette anni di Sei Nazioni, sette di Pro12 e una decina di Accademie perché l’Italia subisse la peggior sconfitta interna nella storia del Sei Nazioni. Al di là del dato storico/statistico, il 63-10 con cui l’Irlanda ha espugnato l’Olimpico ci ha messo di fronte ad una tanto terribile quanto innegabile verità: gli altri viaggiano e crescono ad una velocità diversa dalla nostra. Più di una premessa, più di un dato di fatto: un assioma. Qualunque discorso o commento si voglia fare agli 80 minuti di sabato, quello deve essere il punto di partenza comune. Di sconfitte ne abbiamo subite tante, alcune onorevoli altre meno: ma difficilmente ne viene in mente una altrettanto netta e definitiva. In cui la differenza di livello si evidenziasse così tanto. Conor O’Shea l’ha detto chiaro e tondo a fine gara: “Abbiamo giocato contro una squadra che sotto ogni punto di vista oggi era migliore di noi”. Quella è una squadra che non è migliore di noi un sabato pomeriggio all’Olimpico: quella è una squadra che è migliore di noi in Champions, in Challenge, in Pro12, ovunque andiamo ad affrontarla. Ogni giorno dell’anno. E quegli 80 minuti non sono figli di situazioni momentanee o di una settimana di ritiro nella Capitale, ma affondano le proprie radici nel quotidiano lavoro fatto durante la stagione.
Irlanda batte Italia. Del resto, se Munster batte Zebre e Treviso…
Qualche numero e qualche domanda. Se Treviso e Zebre perdono 49-5 e 46-3 contro Munster, davvero si può pensare che una squadra composta per l’80% da giocatori di Zebre e Treviso sia in grado di competere contro l’Irlanda? E lo stesso vale con Leinster (70-6 e 40-14) e Connacht (47-8 e 52-7), tutti risultati di questa stagione delle nostre franchigie. Il 63-10 va letto anche (se non soprattutto) attraverso la lente d’ingrandimento dei risultati delle celtiche italiane contro le avversarie irlandesi in Pro12 e nelle Coppe Europee. Perché è lì che il gap nasce e cresce. Il Sei Nazioni poi, con il suo livello di intensità in campo ed esposizione mediatica fuori, ha il terribile potere di ingigantirlo ulteriormente, trasformando in prova qualunque indizio ed evidenziando oltre misura ogni momento o punto di rottura che succedono in campo.
Al termine del match, abbiamo chiesto a tre Azzurri quanto l’esperienza con le franchigie, in termini di risultati non competitiva, prepari ad un torneo duro come il Sei Nazioni. “La Champions Cup è la manifestazione che più si avvicina come livello di intensità e velocità, ma anche per come si affronta la settimana di avvicinamento alla partita – racconta George Biagi, seconda linea delle Zebre – I match che abbiamo giocato contro Wasps e Tolosa e Connacht hanno intensità molto simile. Sicuramente loro (i nostri avversari, ndr) arrivano un po’ meglio di noi, anche vedendo i risultati in classifica“. “L’Irlanda ha giocatori che vengono dalle quattro province e che incontriamo in campionato – ci ha detto invece il compagno di squadra in bianconero Carlo Canna – Noi con le Zebre e Treviso non vinciamo molte partite e siamo un po’ indietro rispetto a loro”. Chi invece di partite ne vince è Michele Campagnaro, da due stagioni ad Exeter: “Treviso è la mia casa, il mio trampolino di lancio e devo tanto al club – racconta a proposito dei due anni ai Chiefs – Però sicuramente penso di aver fatto un passo in avanti, una squadra che sa vincere tanto“. Vincere al club per vincere in Nazionale, insomma. “Treviso e Zebre devono iniziare a vincere, i giocatori italiani devono capire cosa serve e cosa si prova a vincere, con l’attenzione ai dettagli e non abituandosi a vittorie occasionali”: parole, queste ultime, dette da Conor O’Shea ad agosto.
Regine contro pedoni. La dura vita dello scacchista O’Shea
La cultura della vittoria riguarda più l’aspetto mentale, di approccio e gestione della partita. Ma la sconfitta dell’Olimpico ha messo duramente alla prova gli Azzurri anche dal punto di vista fisico. L’abilità dell’Irlanda è stata quella di aumentare l’intensità della collisione con l’avvicinarsi della zona rossa. Dentro i 22 poi, la superba prova della terza linea in verde (54 cariche e 143 metri guadagnati complessivamente per il trio O’Brien-Heaslip-Stander) ha permesso a Jackson di distribuire in condizione ottimale, ovvero di avanzamento con difesa fissata. Per non parlare di alcuni gesti individuali (Gilkroy che batte l’interno e vola in mezzo ai pali, tipo), bagaglio personale di skills atletiche in cui ancora non competiamo alla pari. Pensare di discutere il piano di gioco pensato da O’Shea, Catt, Venter e De Carli (calci in campo per esempio, di cui si è parlato in conferenza stampa e con Canna a fine match) è un giochino che certo non ci sentiamo di fare (piuttosto si può parlare, e lo faremo in settimana, dell’accuratezza dell’esecuzione), ma di sicuro battere a scacchi un avversario che ha più regine che pedoni, complica terribilmente le cose. E questo, purtroppo, è quello che ci portiamo via dall’Olimpico.
di Roberto Avesani
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