Fiamme Oro, lotta playoff e un problema tutto italiano. A tu per tu con Umberto Casellato

Abbiamo intervistato il tecnico dei cremisi. Si parte da Roma, ma si arriva a Treviso e in Nuova Zelanda

ph. Massimiliano Carnabucci

ph. Massimiliano Carnabucci

Dopo la fine dell’avventura a Treviso, Umberto Casellato ha trovato casa a Roma sulla panchina delle Fiamme Oro. E dopo un avvio difficile di stagione, i cremisi sono ora in piena corsa per il quarto posto, seppur attesi da un calendario davvero difficile. Assieme al tecnico abbiamo parlato della stagione a Ponte Galeria, ma anche in generale di formazione degli allenatori, di pazienza e di coaching.

 

 

Dopo un avvio difficile la squadra è in piena corsa per il quarto posto. Ma nelle sconfitte avete portato a casa il bonus difensivo contro Calvisano, Rovigo e Petrarca, San Donà…Cosa è mancato per raccogliere più vittorie?

Mi preme iniziare dicendo che in mediana schieriamo giocatori italiani, che stanno avendo un processo di crescita importante. Sia a numero nove che numero dieci alterniamo, anche nel corso della stessa partita, momenti buoni ad altri meno buoni, sia per quanto riguarda gestione alla mano che nel gioco al piede. Suono ruoli chiave e performance altalenanti ci stanno. A Calvisano per esempio la differenza l’ha fatta la gestione più oculata della partita da parte di Novillo. Con questo non voglio dire che abbia più qualità di Azzolini o Buscema, anzi vedendo quasi tutte le partite di quest’anno credo che i numeri dieci si equivalgano. Serve pazienza e dare fiducia ai ragazzi, metterli nelle condizioni di sbagliare, migliorare e performare bene. Alti e bassi fanno parte di questo processo.

 

 

Abbiamo scritto più volte che per vedere la mano di Casellato sarebbe servito tempo. Più o meno di quanto prevedevi ad inizio stagione?

Il metodo di lavoro e organizzazione che ho portato è diverso sia per quanto riguarda l’allenamento che la partita, intesa anche come game plan. Con una rosa di quasi 40 giocatori è difficile, c’è chi è più portato al cambiamento e chi meno. Come staff non siamo ancora completamente soddisfatti: la mano si vede, per esempio se rivedo il primo tempo contro Reggio Emilia quando abbiamo espresso il nostro gioco, anche se nella ripresa siamo calati. Insomma, alterniamo buone fasi a momenti di black out in cui non teniamo bene il gioco, come l’ultima mezzora con Viadana. Con Rovigo abbiamo perso di due punti, con Calvisano abbiamo preso il bonus difensivo…Sono tutte partite a corrente alternata, anche contro squadre che reputo più forti di noi.

 

 

Più un problema di tenuta fisica o mentale, oppure entrambi?

Grazie alla struttura praticamente professionistica, abbiamo a disposizione 15 GPS per monitorare i ragazzi e che ci permettono di lavorare con statistiche veramente dettagliate su work rate fisico e tecnico. Nel secondo tempo con Reggio abbiamo corso meglio del primo, per esempio. Forse è una difficoltà mentale, ma i dati del GPS vanno sempre interpretati in modo corretto. Mi spiego, molti dei nostri ragazzi vengono da un percorso italiano in cui avranno sentito parlare molto spesso di volume di gioco. Ma il volume di gioco deve essere abbinato a tecnica, tattica e strategia: se corro tanti chilometri e faccio tante progressioni ma non tocco palla, posso dire che il mio work rate sia positivo? Bisogna essere efficaci, capire il senso del piano di gioco e in generale di ciò che si fa.

 

 

Quanto è importante avere giocatori che non eseguono ma che pensano e fanno le cose in modo attivo e propositivo?

Credo sia uno dei più grossi difetti del rugby italiano. A volte i giocatori fanno qualcosa come se dovessero svolgere il compito, invece devi entrare nel piano di gioco, capire perché devi fare una cosa. E allora arriva un plus che fa la differenza. Devono capire dove noi staff vogliamo portarli e perché. A Ponte Galeria spesso c’è vento e adattiamo il piano di gioco nei due tempi a seconda che sia contro o a favore, ma poi in campo fatichiamo a metterlo in pratica e modificarlo a partita in corso. E’ l’abitudine ad avere una strategia e la capacità di variarla. Ma alcune cose positive si vedono, eccome, e quando accade mi emoziono: significa dare un senso alla propria fatica e trasmettere qualcosa ai ragazzi.

 

 

La scuola neozelandese, che hai avuto modo di conoscere e frequentare più volte, in questo è forse l’esempio più avanzato.

Sono cresciuto con metodologie di coaching in cui dovevi fare le cose perché era l’allenatore a dirtelo, quasi volesse imporre più che mostrare le proprie competenze. Ma questa cosa è passata, allenare in modo moderno significa far pensare un giocatore, farlo arrivare da solo alla soluzione. A partire dall’Under 14 e dall’Under 16, quando perdere le partite è normale e nell’ordine delle cose. Devi iniziare lì a parlare con i giocatori, fare in modo che acquisiscano autoconsapevolezza dei propri limiti per migliorarli. Mi sono stupito quando ho scoperto che molti dei miei giocatori non hanno mai fatto una scheda di autovalutazione: quello è il primo passo da fare insieme. Loro mi dicono i limiti che sentono, noi dello staff ci confrontiamo e insieme facciamo un piano individuale per migliorare. Credo che a livello di talento non dobbiamo invidiare nulla ai paesi Tier One con cui ci confrontiamo. Certo, loro hanno più quantità, ma forse manchiamo nell’approccio con cui lavoriamo assieme ai ragazzi. Anzi, ne sono sicuro. Non valorizziamo alcuni step di apprendimento che per me sono fondamentali. Un altro strumento che uso molto è la video analisi: ai ragazzi propongo clip, con Buscema e Azzolini guardiamo come Biggar attacca le guardie con le spalle dritte…Voglio che leggano la situazione e capiscano il perché di certe decisioni.

 

 

Torniamo al campionato. Calendario alla mano, siete attesi da San Donà, Petrarca, derby con la Lazio, Calvisano e Rovigo. Mica male…

Il calendario è tosto, ma lo è anche per chi viene a giocare in casa da noi. Segnare a Ponte Galeria è molto dura, davanti al pubblico amico siamo la miglior difesa e le sconfitte sono tutte state risicate: un drop di Basson all’ultimo minuto, con Calvisano abbiamo calciato con il 55%… E’ difficile fare mete alle Fiamme Oro, è una cosa di cui andiamo fieri e che è stata costruita da chi c’era prima di me. Il calendario non ci spaventa, affrontiamo una partita per volta sapendo che il campo ha dimostrato che ce la possiamo giocare anche con squadre sulla carta più forti.

 

 

Cosa ti aspetti dalla partita di domenica al Pacifici?

Un arbitraggio congruo e giusto nelle fasi statiche, innanzitutto. All’andata ci sono state decisioni che non ci hanno soddisfatto, e rivedendole al video ne abbiamo avuto la conferma. Sappiamo che sarà dura, San Donà è una squadra che ha un grande calciatore, Ambrosini, che viaggia all’82%, e giocatori che possono fare la differenza. Concediamo 10 punizioni a partita e dovremmo essere bravi sotto questo aspetto. Inoltre San Donà e Viadana sono seconda e quarta peggior difesa: significa che hanno buone percentuali al piede, che hanno vinto tutte le partite da vincere e quella contro di noi è una di quelle. Anche per come affrontano le dirette rivali a livello psicologico, è un segnale che sarà dura. Ma noi faremo di tutto per vincerla.

 

 

A differenza di altri, le Fiamme Oro sono tra le società che prestano più permit player, anche in weekend di campionato. Come funziona il dialogo con le Zebre e come lo vivi da allenatore?

Le Zebre comunicano un ruolo in cui sono scoperte, noi Fiamme Oro intesi come staff, Presidente e Direttore Sportivo facciamo una valutazione che condividiamo con i colleghi bianconeri. Che tipo di giocatore diamo? Non il più forte o il più completo in assoluto, ma quello che crediamo possa avere in futuro le potenzialità per il Pro12 e a cui vogliamo dare questa possibilità.
Per me non è certo un problema, anche perché siamo coperti nei ruoli. Ma al di là di questo, quello che è importante è valorizzare il permit e fare in modo che si senta valorizzato: alle Zebre, per esempio, chiediamo statistiche e quant’altro per capire la sua performance. Ho allenato in entrambe le franchigie e credo che questa sia la strada. Nel rugby italiano purtroppo c’è poca collaborazione, ma in questo sport nessuno si inventa nulla di nuovo.

 

 

Coach, dopo l’esperienza in Pro12 sei tornato in Eccellenza, quest’anno Guidi e le Zebre si sono separati… Gli allenatori italiani sono pronti per il Pro12? E se non lo sono, come si rimedia?

Il discorso è molto ampio e complesso, e dovrebbe partire dal ruolo degli staff tecnici. Leo Cullen a Leinster ed Anthony Foley a Munster hanno fatto un percorso prima di arrivare ad allenare in Pro12. Semplice, un allenatore deve essere allenato, esattamente come accade per i giocatori. Mentre ero a Treviso ho trascorso una settimana con Eddie Jones. E’ stata un’esperienza pazzesca e mi ha trasmesso due cose: in questo lavoro la passione è una cosa fondamentale, e allenatori non si nasce ma si diventa. Lui ha trascorso tanto tempo gomito a gomito con Bob Dwyer, partecipava a tutti i lavori: allenamenti, riunione tecniche, incontri di persona con i giocatori…E lì ha imparato tantissimo. Personalmente, forse non ero adeguato a guidare da capo allenatore una franchigia in Pro12. Non lo ero ancora, dovevo ancora studiare, paradossalmente lo sarei più oggi che ho una panchina in Eccellenza. Accetto tutte le critiche. Però faccio una domanda: a me chi ha insegnato ad allenare in Pro12? Ciò che sono come allenatore l’ho soprattutto imparato con risorse mie in Australia, in Nuova Zelanda con Graham Henry, dai Jaguares dove andrò non appena avrò tempo per imparare assieme al loro skills coach, Jose Pellicena, che ha giocato tanti anni ai Crociati. Ma credo che in Italia nella formazione degli allenatori oggi ci sia qualcosa di sbagliato.

 

 

L’arrivo di Conor O’Shea ha portato molto entusiasmo. Cosa ti piace di lui e cosa vorresti imparare?

Oltre alle questioni tecniche, di Conor mi piacerebbe apprendere la sua positività, e sto studiando per farlo. E’ una questione forse tipica di noi latini, o ci esaltiamo o ci deprimiamo ma soprattutto non ci diamo tempo per lavorare. L’anno a Treviso sono mancate proprio positività e pazienza, oltre ad uno staff tecnico adeguato ad un torneo come il Pro12, ma questo è un altro discorso. Ma permettimi di dire una cosa, a volte sembra che basti la nazionalità di un allenatore per cambiare l’approccio e la visione: quest’anno i risultati della Benetton non possono dirsi positivi, l’obiettivo è il penultimo posto eppure tutti danno fiducia e pazienza. Basta la carta d’identità per decidere chi può avere tempo e chi no?

 

 

E’ una svolta culturale, per questo forse difficilissima…

Le squadre devono prendere consapevolezza del proprio valore. Dopo la semifinale scudetto del 2012 con Mogliano, tutta la società ha capito di poter valere e competere al massimo livello. La società intesa come organizzazione, dal segretario al magazziniere, tutti avevano capito di poter essere i migliori nel proprio campo. E su quella base abbiamo costruito lo scudetto dell’anno successivo. Qui alle Fiamme Oro voglio proprio questo. E la Benetton Treviso di Franco Smith aveva un gruppo di giocatori forti ma soprattutto consapevoli del proprio valore, che dopo aver vinto in Italia erano pronti a mettersi in gioco in Celtic League.

 

 

Che giovani arrivano oggi in Eccellenza?

Forse le basi tecniche sono sbagliate. L’importante è non usare questa scusa per giustificare i risultati negativi. C’è qualcosa di sbagliato e probabilmente risiede nel modo in cui sono allenati: se un ragazzo a 16 anni non fa determinate cose, è perché non gli sono state insegnate. Il grande tassello da riempire è chi allena gli allenatori.

 

di Roberto Avesani

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