Sei Nazioni 2017: cosa ci lascia uno dei tornei più intensi degli ultimi anni

Il ciclo Cotter, mediani di mischia del futuro e qualche lavoro in corso. Il punto dopo 15 partite

sei nazioni 2017

ph. Reuters

Il primo Sei Nazioni a punteggio moderno è andato in archivio. Un torneo bello, bellissimo, intenso, intensissimo, che ha dimostrato quanto in alto l’Emisfero Nord stia spingendo l’asticella. Ecco cosa ci lascia in dote il torneo terminato sabato all’Aviva Stadium di Dublino.

 

 

La parabola di Cotter

Vern Cotter ha potuto salutare la Scozia senza troppi rimpianti con il 29-0 rifilato all’Italia nell’ultima giornata. Certo, il 61-21 di Twickenham contro l’Inghilterra è una ferita probabilmente ancora aperta nella mente del ct neozelandese, ma allo stesso tempo le aspettative attorno ai Dark Blues per quella sfida erano fin troppo elevate (anche se non tali da giustificare un passivo di 40 punti). Capitombolo di Londra a parte, tuttavia, il bilancio del futuro tecnico di Montpellier alla guida degli Highlanders è senz’altro positivo: sulle 36 partite giocate sotto la gestione Cotter, la Scozia ne ha vinte 19 e perse 17 (tra cui: una sconfitta di otto punti contro gli All Blacks nel 2014, il famigerato quarto di finale della RWC contro l’Australia e il 22-23 subito sempre dai Wallabies a novembre). Era dalla gestione McGeechan (1988-1993) che un allenatore non vantava un saldo positivo alla guida dei Dark Blues.

 

Il neozelandese ha preso in mano una nazionale in un momento delicato e, nel giro di tre stagioni, l’ha condotta ad una maturazione psicologica e tecnica stupefacente, forte anche di un bacino di stelle come Hogg, Russell, i fratelli Gray, Huw Jones, capitan Laidlaw e Seymour. Cotter ha saputo unire le qualità di un pack forte ma non irresistibile (se comparato a quelle delle altre Tier 1) ad una batteria di trequarti effervescente e a tratti spettacolare, il cui gioco al largo è diventato il marchio di fabbrica della nazionale del Cardo nelle ultime stagioni. Diminuendo in modo sensibili i giri a vuoto che troppo spesso avevano inficiato le performance collettive. Il Sei Nazioni appena concluso (la Scozia non vinceva tre partite dal 2006) è stata la ciliegina sulla torta di un percorso impeccabile dell’intero movimento, che ha portato i Glasgow Warriors a diventare una delle prime otto potenze europee e a conquistare il titolo del Pro12 nel 2015. Quegli stessi Warriors che, per sedici elementi su trentasette, componevano la rosa della Scozia nell’ultimo turno. Sempre dagli Warriors, inoltre, proviene il prossimo coach degli Highlanders che risponde al nome di Gregor Townsend, artefice dell’ascesa della franchigia di Glasgow: dopo due coach inglesi ed uno neozelandese, dunque, la Federazione ci riprova con un profeta in patria, a cui sarà affidato il compito di continuare a crescere in vista della Coppa del Mondo in Giappone. E per l’intero movimento scozzese, forse, è questa la sfida più grande.

 

 

Talento, disordine e mediani di mischia stellari

Alla vigilia della sfida contro l’Italia, avevamo indicato la Francia come la nazionale più strana nel panorama europeo. Le ultime due partite del torneo – contro gli Azzurri e contro il Galles – di fatto non hanno fatto altro che avvalorare quella tesi, che vuole i transalpini sempre alla ricerca del rinomato French Flair anche quando il buon senso farebbe optare per altre scelte. Il risultato è una squadra a tratti spettacolare, che non prova mai a gestire diversamente il pallone se non allargando il gioco, riciclare il pallone con offload spesso impossibili (67 in totale, primi in questa classifica) e contrattaccare da ogni zona del campo. Le statistiche parlano chiaro:Bleus sono quelli che hanno guadagnato più metri palla in mano (2.753), che hanno creato più break (57) e battuto più difensori (136). Eppure, le mete realizzate sono state soltanto 8, appena due in più dell’Italia e alla pari di un altro attacco piuttosto sterile come quello gallese. A togliere le castagne dal fuoco ci ha spesso pensato la mischia e il piede di Camille Lopez (67 punti, top scorer del torneo), a dimostrazione di quanto lavoro dovrà ancora fare Guy Noves nei prossimi mesi per migliorare l’organizzazione collettiva dei suoi e le strutture d’attacco palla in mano.

 

Oltre all’inconcludenza e al disordine mostrato spesso e volentieri, a risaltare tra i galletti però è anche la giovane coppia di mediani di mischia che si è alternata nelle ultime due giornate: Baptiste Serin (classe 1994) e Antoine Dupont (classe 1996), due giocatori considerati come il presente e il futuro della nazionale francese e tra i migliori talenti al mondo nel proprio ruolo. Avete presente il concetto di concorrenza interna? Ecco, appunto. Serin, dopo essere partito come riserva nei test di novembre, si è guadagnato il posto da titolare ai danni di Machenaud e ha dimostrato di meritarlo a pieno, mettendo in mostra un bagaglio tecnico in fase offensiva già completo e di altissimo livello (ad esempio, riguardate la sua gestualità nel passare il pallone, soprattutto da sinistra verso destra: sublime). Insomma, la stella di Bordeaux sembrerebbe avere la maglia n° 9 già cucita addosso per i prossimi dieci anni, se non fosse per Dupont, il furetto di Castres già destinato a Tolosa per il prossimo campionato. Già contro il Galles, nel lunghissimo e concitato finale, il 20enne ha messo in mostra tutta la sua vivacità e scaltrezza intorno ai raggruppamenti, dando un piccolo assaggio di quello che potremmo vedere nei prossimi anni.

 

 

Un incidente di percorso, ma il cammino è segnato

Il gruppo di Eddie Jones con la seconda vittoria consecutiva nel torneo e 11 vittorie nelle 12 partite degli ultimi due anni, ha dimostrato di avere tutto per arrivare al meglio all’appuntamento iridato. Ci sono la forza dei primi otto uomini del pack, con Marler, Lanchbury e Itoje su tutti; la varietà e la profondità di scelte fra i trequarti; la forza mentale che Eddie Jones ha saputo costruire. I tanti infortunati dell’inizio del mese di febbraio non sono stati vissuti come una problematica, anzi. E’ stata la miglior chance per allargare – se mai ce ne fosse stato bisogno –  il serbatoio da cui pescare. E a proposito, l’Under 20 domina in giro per Ovalia…

 

 

L’ammazza grandi cerca continuità

Un Sei Nazioni da montagne russe. E’ questo quello che ha vissuto l’Irlanda nelle sette settimane del Torneo. Sconfitta con la Scozia, vittorie con Italia e Francia, ko contro il Galles e affermazione finale contro l’Inghilterra. Il mix creato fra giovani e veterani non ha ancora una struttura del tutto stabile e forse si fa influenzare dalla presenza o meno di Sexton in campo: l’apertura infatti sembra essere ancora il giocatore più influente della rosa irlandese, per quanto Jackson si sia comportato egregiamente in sua assenza.

Fra i primi otto certamente il reparto di più alto lignaggio sembra essere quello delle terze linee, con CJ Stander, O’Brien e Heaslip, che hanno disputato un torneo di livello, mentre fra i trequarti la coppia di centri Henshaw-Ringrose vorrebbe seguire nel corso degli anni il percorso compiuto dallo storico duo Darcy-O’Driscoll (e per il secondo centro i miglioramenti non sono certo finiti). C’è poi Tadhg Furlong, che metterà pressione in chiave Lions. Senza dimenticare la grande prestazione di Marmion, che in assenza di Murray ha gestito il gioco in modo impeccabile contro l’Inghilterra nella sfida forse più sentita di tutto il torneo. La sensazione è che Munster e Leinster dopo questo Sei Nazioni faranno ancora più paura in Europa.

 

 

Non di sola difesa vivranno i Dragoni

L’affermazione orgogliosa con l’Irlanda e l’esordio positivo all’Olimpico dei Dragoni, peraltro gli unici a non cogliere il punto di bonus offensivo contro gli Azzurri, non salvano un Sei Nazioni piuttosto sottotono degli uomini di Howley. Il gruppo che fra il 2011 e il 2015 si era esaltato vincendo due volte il massimo torneo dell’Emisfero Nord, arrivando ad un passo dalla finale della Coppa del Mondo e permettendo di vincere la serie Lions in Australia, sembra avere in parte finito la benzina e di ricambi all’orizzonte non ce ne sono poi tanti. Ma forse ciò che più la squadra sta cercando con difficoltà è un’identità di gioco rinnovata rispetto al Warren Game e l’inserimento di Williams a primo centro va in direzione di una maggiore imprevidibilità in fase offensiva. Anche perché presi singolarmente i vari North, Halfpenny, Biggar e Warburton hanno disputato un ottimo torneo, con Moriarty che ha dato tutto per non far rimpiangere Faletau.

Dove il Galles resta un osso duro è in difesa grazie allo straordinario lavoro di Shaun Edwards. Ma dopo anni di dominio delle difese, regole e punti di bonus vanno verso l’incoraggiamento degli attacchi. E la strada da fare per i Dragoni non è ancora finita.

 

 

di Michele Cassano e Daniele Pansardi

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