Matthias Canapini, 25enne marchigiano, sta girando l’Italia per raccontare il “rugby di frontiera”
“La semplicità sta nell’umiltà di guardare”
Questa storia comincia da lontano. Le giornate si accorciavano velocemente e le prime timide tracce di settembre portavano un fresco sollievo dopo mesi di calura. Ricordo bene le nuvole e la sensazione provata allora, come al principio di una bella avventura inaspettata. Ormai dieci anni fa cominciavo a giocare a rugby, trascinandomi dentro un involucro di timidezza, sceso dal furgoncino sgangherato che di fronte un campo in terra battuta mi aveva lasciato senza troppe spiegazioni.
“Sai, nel rugby non ci sono cognomi sulla maglia, non ci sono primedonne né “i più forti”. Se vuoi arrivare in meta devi farlo insieme ai tuoi compagni di squadra, i quali faranno il possibile per non lasciarti mai solo in mezzo ai giganti. Si resiste e si va avanti grazie ad un lavoro collettivo, come una famiglia, come in una sgangherata comunità ovale dove per poter avanzare devi passare sempre la palla indietro” raccontava un vecchio parente con spalle massicce da pilone. “Il rugby è uno sport difficile: botte, fango, cazzotti, distorsioni, freddo. La poesia del sacrificio. Ma un vecchio detto di questo mondo dice che un pallone tondo viene restituito anche da un muro, quello ovale solo da un amico” proseguiva Francesco sorridendo.
Quelle parole mi rimbombano tuttora nella testa a ripensarci. Mi pareva, all’epoca, in quel dì bizzarro di settembre, di essere stato catapultato per caso dentro “Diari d’aprile” di Marco Paolini. Le docce perennemente fredde, la club house inesistente, una macchinetta per le bibite che il più delle volte rubava i pochi centesimi avanzati dalla merenda scolastica del mattino. Ma c’era ben altro. L’ho intuito di lì a poco.
C’era l’amicizia, il calore dei compagni di squadra, le birre. Il vento invernale, freddissimo, i chili di fango appiccicati addosso, la stanchezza e la felicità. Non si era mai soli. Non lo si è tuttora, malgrado il tempo che passa. A volte credo che la vita sia una lunghissima partita di rugby, dove se tutti noi mettessimo in atto i valori che contraddistinguono questo sport, quali il sostegno, l’amicizia, il contatto con la terra, le nostre esistenze potrebbero davvero seguire altre vie. Il rugby potrebbe salvare il mondo, sul serio! Sembra paradossale lo so, ma molto spesso questi ideali portano speranza e luce in un mondo sempre più chiuso e indifferente.
Il rugby, sempre lui, mi ha aiutato a partire, lasciare le zavorre, vedere, scrivere, esplorare. In questi cinque anni di viaggi ho tentato di raccontare cose belle e cose brutte, dalle storie sotto casa a quelle smarrite negli angoli del mondo. Ma gli ideali che mi smuovevano dentro, sia in campo che fuori, sono rimasti immutati, eterni.
Oggi forse capisco che ciò che mi porto dentro, all’altezza dello stomaco, non è semplicemente uno sport, ma una filosofia di vita. Forse intuisco che c’è tanto da imparare dagli anziani, ma anche dai bambini. Guardare dal basso il nostro mondo con umiltà, coraggio e semplicità. Sentirsi parte di un gruppo, di una famiglia e andare in meta, semmai ce ne fosse realmente una, insieme. Mai soli. Voi che dite? Se così non fosse, trascorrere una vita vera tra amici e fratelli, non può che essere una bella storia.
Rugby e rivoluzione – il giro dell’Italia ovale in 80 treni
Amicizia, sostegno, solidarietà. In squadra si è tutti operai, freelance, contadini, padri di famiglia. Prendiamo le botte insieme, giuriamo, in preda allo sconforto, di non tornare ma neve o pioggia il martedì seguente ci si rivede li, in quel campo spelacchiato di polvere umida sovrastato da due pali altissimi a forma di “H”, incastrato tra i licei ed il cimitero comunale di Fano. Basta l’odore dell’erba fresca, due risate, una palla ovale dagli incerti rimbalzi per farti assaporare una sorta di felicità bambinesca. Dopo ogni viaggio torno qui, a casa, per vivere la “mia terra” e giocare. Per questo motivo, e per tanti altri, nel mese di novembre ho deciso di mettermi in cammino lungo le vene aperte della nostra penisola, per tentare di raccontare il gioco del rugby e tessere una rete tra le varie squadre, da nord a sud, unendo le mie più grandi passioni: la palla ovale, le storie, i viaggi. Ne ho parlato col Fano Rugby, coi miei compagni di squadra, i quali, tramite una raccolta fondi collettiva, hanno voluto autofinanziare il progetto, coprendo le spese degli spostamenti, affrontati sempre a bordo dei treni più economici. Una bella forma di sostegno!
Ho ideato il progetto “Rugby e rivoluzione” perché credo nel rugby come strumento propedeutico. Credo anche che sia giunto il momento di cambiare, rivoluzionare il nostro punto di vista verso il mondo, verso la nostra comune umanità. Mauro, psichiatra di Bari, un caro amico conosciuto durante una delle tante tappe del pellegrinaggio, ripete sempre: “L’unica via possibile è tornare ad essere umani e riscoprirci comunità. Cambiare il modo di guardare le cose e sentirsi parte di tutto, relazionarsi senza distinzione tra religioni, etnie, sessi”. L’intento del viaggio dunque è raccontare storie e realtà sportive che abbiano un grande riscontro sociale sulla nostra quotidianità. Narrare le cronache e i temi del nostro tempo, quali l’omofobia, l’immigrazione, la disabilità mentale e fisica, il carcere e tanto altro, tramite insolite squadrette di rugby socialmente schierate a favore di queste tematiche. Chiedo sempre di allenarmi coi ragazzi che incontro, perché credo sia il migliore modo per vivere il contesto, lo spogliatoio, le difficoltà. In questi ultimi mesi, quando scendo in campo col Fano Rugby, ripenso spesso ai volti incontrati, legati l’un l’altro dalla passione per quel pallone storto, eccentrico, sofferto.
Ripenso a Ibrahim, centro delle “Le Tre Rose”, squadra nata a Casale Monferrato e composta principalmente da richiedenti asilo provenienti dall’Africa Sub Sahariana. “Sono l’unico della squadra ad aver giocato a rugby prima di mettermi in cammino per l’Europa, prendendo le botte in Libia e superare il mare su un barcone malmesso. Malgrado le differenze ricorda che prima ancora di essere un ospite sei mio fratello” raccontava offrendomi l’ennesima fetta di crostata alla crema.
Umberto, capitano di “Libera Rugby”, squadra militante nel campetto riqualificato dell’Acrobax di Roma, composta per la maggioranza da ragazzi omosessuali, schierati apertamente contro l’omofobia. “Io sono etero, ma ho scelto di giocare con loro per portare avanti il messaggio del gruppo, sperando molto presto di poter fare a meno di squadre come Libera. Significherebbe raggiungere la completa uguaglianza tra persone, sia nella vita che sul campo da rugby”.
Oppure Pino, dirigente e motore de L’Aquila Rugby prima che il sisma cambiasse tutto. Conducendomi tra i detriti e le macerie dei loro vecchi luoghi di ritrovo, con gli occhi lucidi, narrava le gesta, le tattiche, le finte, le pazze scorribande di un leggendario gruppo di robusti amici. Anche i rugbisti piangono, è proprio vero! Tutto ciò è un modo semplice e alternativo di raccontare l’Italia, ma soprattutto ciò che ruota attorno al gioco del rugby. Un rugby autentico, genuino, senza passare per federazioni, giacche o cravatte.Un rugby spavaldo, pazzo, goliardico.
Goliardico come Ivo, preparatore atletico della “Stella Rossa” di Milano, (ideatori del progetto “Mud Mad Star”) il quale per scaldare i muscoli di mediani e avanti usa un’insolita pomata verde, caldissima e gelatinosa, stesso riscaldante utilizzato per i puledri prima delle corse!
Il viaggio prosegue tra birre, canzoni e placcaggi. Proveremo a raccontare nuove realtà, muovendoci tra la periferia di Scampia e la casa circondariale di Pesaro, convinti che “stare al mondo è un casino, ma col rugby va tutto un po’ meglio”.
Un abbraccio ovale a tutti e tutte!
Matthias Canapini
L’intento del progetto di Matthias “Il rugby visto dal basso” è condividere le storie raccolte tramite un libro di appunti, accompagnato da alcune fotografie scattate da Chiara (autrice delle immagini che accompagnano questo articolo). Gli scatti saranno inclusi nel libro e usati come mostra itinerante durante le varie presentazioni. Lo scopo è delineare e raccontare sette, otto temi sociali legati alla palla ovale.
Chiunque fosse interessato a seguire il progetto o volesse contribuire a consolidare la rete ovale e trovare nuove realtà sociali, può contattare Matthias e Chiara a questi indirizzi:
[email protected]
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