Intervista al seconda linea dei Leoni e della Nazionale. Che parla anche di posto Champions garantito e giovani
Classe 1991, Marco Fuser è al suo quinto anno con la Benetton Treviso con cui ha disputato una stagione di crescita positiva a livello personale. Con 21 caps in maglia della Nazionale, è diventato uno dei punti fermi della seconda linea azzurra.
Marco, iniziamo con un bilancio collettivo di questa stagione.
Purtroppo veniamo da alcune stagioni in cui non abbiamo raggiunto i risultati sperati. Anche quest’anno è in parte andata così, ma per come si era messa siamo comunque riusciti ad arrivare decimi mettendo dietro Newport. A parte il settimo posto del 2013, è il miglior risultato con il decimo posto del 2012. Comunque, il finale ci fa ben sperare per il prossimo anno: la società sta costruendo una squadra solida e l’obiettivo è di fare certamente meglio.
A livello personale come la vedi invece? Dove vorresti migliorare?
Sono abbastanza contento della mia stagione. Mi sembra di essere cresciuto parecchio e di essere arrivato ad un buon punto. Sono migliorato in difesa, ma voglio riuscire ad avere più resistenza e portare più palla, essere più impattante nel dare avanzamento. Poi mi ricorderò la stagione per aver marcato 4 mete: non era mai successo e comunque è una soddisfazione.
Per te si parlava di un possibile addio verso l’estero. E’ un’esperienza che in futuro vorrai fare?
Sicuramente nella mia carriera c’è la voglia di provare un’esperienza simile. Mi piacerebbe testarmi in Premiership, lo considero il campionato di più alto livello d’Europa: se si presenterà la possibilità mi piacerebbe coglierla. Per ora mi piace aver sentito la fiducia della società: voglio essere parte del progetto di Conor e di Kieran.
A proposito, come è andato il primo anno con coach Crowley e quali sono le difficoltà maggiori che hai riscontrato?
E’ stato un bel cambiamento, anche perché alla base c’è un concetto diverso del rugby: è molto più basato sulle skills e sull’abilità individuale dei giocatori. E se sei carente in alcuni campi, qualunque sia il tuo ruolo c’è tanto lavoro mirato e specifico per migliorare. Non ti nascondo che abituarsi ha richiesto tempo, ma pian piano entri nell’ottica di ciò che ci si è prefissati, cominci a lavorare meglio e capire l’intero sistema. Non solo lo capisci, ma lo condividi, ci stai dentro come giocatore attivo. Da parte dello staff tecnico per correggere non si usano né il bastone né la carota: la soluzione si trova assieme pensando.
Come hai avvertito questa maggiore responsabilizzazione che vi era richiesta?
Kieran è un allenatore di poche parole, ma con il suo atteggiamento ti fa capire se una cosa secondo lui va bene o va migliorata. Personalmente in alcuni momenti ho sentito la mancanza di una voce che mi gridasse cosa e dove stavo sbagliando, ma pian piano entri nella sua ottica, pretendi più da te stesso. Forse noi giocatori italiani fatichiamo ancora ad abituarci ad un rapporto con lo staff tecnico fatto di gesti e atteggiamenti piuttosto che di parole di correzione.. Parlo sempre a livello personale, a volte magari serve un feedback immediato per capire se stai sbagliando. Ma capisco perfettamente che c’è un progetto di crescita collettiva: meglio capire da solo cosa stai sbagliando e come correggerti, piuttosto che abituarti ad avere qualcuno che te lo ripete ma senza fartelo capire.
Da seconda linea hai la possibilità di lavorare con un mostro sacro come Marco Bortolami…
Con Marco si lavora molto bene. E’ davvero preparato e attento al dettaglio: abbiamo lavorato parecchio sulla correzione della partenza del saltatore. A livello di strategia c’è sempre un confronto collettivo staff-giocatori per capire le dinamiche degli avversari e affrontare ogni partita nel miglior modo.
A proposito di seconde linee, sembra sia il ruolo dove fatichiamo di più a formare giocatori di Alto Livello. Ti sei mai chiesto perché?
Non saprei. Ma posso dirti che secondo me di buone seconde linee italiane ce ne sono diverse, senza guardarsi troppo attorno.
La sensazione è che quanto avete costruito sia più importante di quanto restituito dalla classifica finale. La realtà, insomma, è meglio dei risultati. Concordi?
Abbiamo puntato molto sul costruire un gruppo più unito a livello di squadra. Ciò significa lottare dal primo all’ultimo minuto, ma anche tenere alta la concentrazione: è capitato a volte di alternare bellissime azioni a errori clamorosi con cui roviniamo tutto. E poi a causa delle molte sconfitte abbiamo dovuto lavorare molto a livello mentale: convincerci che abbiamo più abilità di quelle che concretamente abbiamo espresso in campo.
A livello di gioco che Benetton hai visto?
Dico che come squadra abbiamo migliorato il nostro gioco: attacchiamo di più, cerchiamo di avere un multifase strutturato. Mi è capitato di vedere alcune partite dalla tribuna per scelta, e devo dire che più volte mi sono sentito contento dei ragazzi, vedevo belle manovre. Sono molto positivo per la prossima stagione.
Le sconfitte hanno mai minato la vostra serenità? E quanto importanti sono state le vittorie con Bayonne?
Continuare a perdere a livello psicologico ti abbatte. Una vittoria invece ti fa respirare: sei più tranquillo, lavori in modo più positivo. Se i risultati non arrivano sei sotto pressione, non capisci perché pur lavorando tanto e bene continui a perdere: è un circolo vizioso, perché poi subentra quasi la paura di vincere, si sbagliano azioni di meta, si rischia di mollare di testa e contro squadre forti arrivano anche punteggi pesanti. E dentro di te pensi che qualunque cosa fai in settimana, che ti alleni bene o male, alla fine perdi. E lì deve scattare la reazione: vincere con Bayonne ha dato enorme energia, ha portato voglia di confrontarci, di scendere in campo nuovamente, di giocare il giorno dopo un’altra partita. Se perdi continuamente ci sono volte che la voglia devi essere bravo a cercarla e trovarla.
I risultati hanno influito sul rapporto di coach Crowley con la squadra, o comunque sul vostro lavoro?
Come ti dicevo prima, è una persona che comunica molto senza parole. Il suo body language in occasione di sconfitte anche larghe è stato di esempio: ci faceva capire quanto fosse dispiaciuto, quanto ci tenesse a fare bene, ma senza mai comunicare negatività o abbattimento. Certi suoi silenzi ci caricano, trasmettono voglia di reagire e pensare alla prossima partita. Credo che questo discorso valga in generale per il rugby italiano: la critica ci sta, ci mancherebbe, ma a volte davvero bisognerebbe dar voce alla voglia di riscatto che tutti noi abbiamo.
Basta posto garantito in Champions. Che ne pensi?
Personalmente ritengo che sia giusta la meritocrazia e può essere uno stimolo in più per noi a raggiungere livelli più alti. Da giocatore, arrivare penultimo e ritrovarsi in Champions ti può portare a pensare di non essere a livello: se faccio una grande stagione, arrivo settimo e mi qualifico, allora sì, sento di essermelo meritato sul campo. Altrimenti no, e tra l’altro magari non è poi neanche giusto nei confronti delle altre squadre celtiche che ci arrivano davanti. Poi è giusto che la Fir tuteli il rugby italiano, ma se hai squadre che competono sul campo tutto diventa più facile anche in quelle sedi.
Inizia tra poco il Mondiale dell’Under 20, con cui hai giocato nel 2011 al Sei Nazioni. Cosa ricordi degli avversari che avete affrontato?
Nel 2011 al Sei Nazioni giocammo a Bath contro l’Inghilterra: sconfitta 74-3. Lo ricordo bene perché Andrea Cavinato ci disse di tenere la maglia di quella partita, per ricordarci quella brutta sconfitta e ancora la conservo a casa! Scherzi a parte, ricordo una squadra inglese fortissima sotto molti punti di vista: skills, organizzazione… Ma fisicamente c’eravamo e ci siamo ancora: ho visto le partite dell’Under 20 all’ultimo Sei Nazioni. Abbiamo sfiorato due vittorie: forse serviva più voglia di cercare il risultato, ovvero cinismo, e abilità di tenere d’occhio i dettagli per tutti gli 80 minuti, anche quelli più piccoli.
A 26 anni sei giovane ma non giovanissimo. Come sono i giovani che si affacciano al Pro12?
Ci sono ragazzi davvero talentuosi. Un consiglio che mi sento di dare è quello di essere consapevoli che è quasi più difficile restare a questo livello che arrivarci. E’ giusto credere nei propri mezzi, fidarsi di se stessi e delle proprie abilità, ma senza illusioni, aspettative, senza sentirsi già arrivati o pretendere di giocare subito. Dare il massimo in ogni allenamento, e farlo sempre con umiltà. Per un ventenne come ero io all’epoca, tra l’altro con qualche chilo in più dopo lo strappo che mi aveva fatto saltare il Mondiale Under 20 quell’estate, o come Luca Sperandio oggi, arrivare in Pro12 è un bel salto. Ma con duro lavoro, umiltà, pazienza, si lavora, si cresce, si guadagnano minuti stagione dopo stagione.
di Roberto Avesani
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