Ci sono i capitani tecnici: i più forti. Quelli a parole: gli hollywoodiani. Quelli silenziosi: parla l’esempio
Un’assenza sicuramente eclatante ma in qualche modo annunciata: quella di Sam Warburton dal XV titolare del primo test match che sabato mattina, alle 9.35 italiane, vedrà i British & Irish Lions affrontare la Nuova Zelanda. C’è infatti la maglia numero 20 per il capitano del tour, attardatosi nel raggiungimento della forma migliore a causa di un infortunio subito in pro12 con la maglia dei suoi Cardiff Blues.
Per la prima volta dal 1930, non sarà il capitano designato a portare la squadra fuori dal tunnel degli spogliatoi e a guidarla in campo. A mettere al braccio la fascia di capitano sabato mattina sarà Peter O’Mahony, il capitano del Munster, che dividerà la terza linea con Taulupe Faletau e Sean O’Brien, rispettivamente numero otto e numero sette della squadra scelta da Warren Gatland.
Leading by example
Peter O’Mahony ha il carattere e la pasta giusti per essere quelli del capitano di una squadra di rugby, qualunque essa sia. E questo lo dicono i fatti: nella sua carriera, il terza linea irlandese ha portato la fascia del Presentation Brothers College (la sua scuola di Cork), ogni squadra del Cork Constitution dove ha giocato (giovanili e senior), l’Irlanda under-18, l’Irlanda under-20, il Munster, la nazionale irlandese (a soli 23 anni) e i British & Irish Lions, anche se quello di sabato sarà il primo match ufficiale nel quale porterà la fascia.
Ci sono quei giocatori che sono nati per essere capitani, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Ci sono i capitani hollywoodiani, il classico tipo che carica lo spogliatoio con uno splendido discorso pre-partita, che trasmette alla squadra una narrativa che li porta a trovare una motivazione comune per tendere al risultato. Ci sono capitani che impongono reverenza con la sola presenza, il solo esserci cambia le cose: quelli che zittiscono lo spogliatoio per il solo fatto di entrarci. Ci sono i capitani tecnici: quelli alla Parisse, che sono semplicemente, evidentemente troppo più forti di ogni altro giocatore nello spogliatoio per non essere universalmente riconosciuti come i numeri uno.
Ci sono, infine, quei capitani la cui forza è l’esempio. Non sono le parole a testimoniare la loro leadership, ma la sensazione che comunicano in campo: la voglia che trasmettono a ogni compagno di non deludere le aspettative, la capacità di porre degli standard alti nel campo d’allenamento come in quello da gioco affinché i compagni non siano da meno. Questo è Peter O’Mahony, leader silenzioso.
Se fosse un personaggio di un libro, Peter O’Mahony sarebbe il Paddy Bawn di Maurice Walsh in “Un uomo tranquillo”, dal quale venne poi tratto anche il film con protagonista John Wayne. Quel Paddy Bawn era un uomo tranquillo, per l’appunto, uno che di battaglie ne aveva viste, e che fosse stato per lui si sarebbe ritirato a godersi la gioia della sua collina irlandese coperta di erica. Eppure, per quanto tranquillo, un uomo che, per la giusta causa, allergico al torto, orgoglioso dei propri valori, era pronto a dar battaglia.
Nelle speculazioni che hanno preceduto le convocazioni del 19 aprile, c’era chi diceva: “Sarebbe una buona idea portare O’Mahony”. “Potrebbe essere un ottimo capitano nei midweek”. “O’Mahony potrebbe guidare le truppe fuori dai test match riuscendo a tenerle concentrate”.
La verità è che tutti, già alla vigilia del test, conoscevano le caratteristiche di Peter O’Mahony ed era riconosciuto universalmente che sarebbe stato un ottimo leone, una pedina fondamentale per Warren Gatland. Pochi, però, pensavano che O’Mahony avrebbe potuto far parte del XV del primo test, soprattutto dopo una stagione 2016–17 difficile, costellata di infortuni più o meno gravi che lo hanno costretto a saltare praticamente la totalità del Sei Nazioni.
Poi, improvvisamente, il 18 marzo Jamie Heaslip si infortuna nel riscaldamento di Irlanda-Inghilterra, ultima del torneo. Sliding door: O’Mahony gioca titolare con la numero 6 ed è fenomenale. Distrugge la rimessa laterale inglese da solo (uno dei migliori al mondo nelle rubate da touche), è ovunque, è l’epitome della terza linea dal lato chiuso: un giocatore silente, dedito con la totalità delle sue energie e del suo fisico al lavoro sporco, e duro, ricevendo la totale ammirazione dei compagni, tirandoseli dietro grazie alla sua abnegazione.
L’Irlanda trionfa sulla scia della sua prestazione. Gatland riapre gli occhi, e li punta su Limerick: c’è una squadra da veder giocare, e la porta in campo un capitano che parla con l’esempio. Sulle spalle porta la maglia numero sei, e quella maglia è rossa, come quella dei Lions. Per Warren Gatland è quasi una visione.
Munsterman
La stagione del Munster si è infranta nel finale. Una squadra corta, che è arrivata stanca agli appuntamenti decisivi: la finale di Pro12 contro gli Scarlets, altra squadra in maglia rossa; la semifinale di Champions Cup contro i campioni uscenti dei Saracens, che si sarebbero poi confermati.
Una stagione, quella dei ragazzi della provincia di Limerick, che aveva dentro qualcosa in più, qualcosa lasciato dalla prematura scomparsa di Anthony Foley, l’head coach della formazione irlandese.
Il 16 ottobre scorso, alla vigilia del primo match stagionale di Champions Cup che avrebbe visto il Munster ospitato dal Racing Metro, Foley perdeva la vita nel sonno, vittima di un’edema polmonare. La partita non si giocherà, e la salma dell’allenatore ed ex-giocatore del Munster, capitano nei suoi ultimi giorni da giocatore fra il 2006 e il 2008, verrà riportata qualche giorno dopo in Irlanda.
A Limerick, nella prima conferenza stampa dopo la morte dell’amato Foley, capace di restaurare quel Munster Pride perduto negli anni recenti, sarà Peter O’Mahony, il capitano nei quali tanti hanno rivisto le stigmate dello stesso Foley, a prendere la parola a nome dei giocatori.
E’ stato chiaro a tutti quanti che la stagione del Munster, dalla dipartita dell’allenatore in poi, abbia avuto una ferocia e un ardore inevitabilmente collegati alla tragedia subita. Nel dramma, è bello vedere come certi intangibles abbiano ancora un valore importante all’interno di una partita, di un’intera stagione ovale.
Peter O’Mahony è stato un capitano esemplare, sulla scia dello stesso Foley e su quella del suo erede, Paul O’Connell. Tutta la storia della sua formazione, della sua carriera, dei momenti che la hanno popolata sono profondamente intrisi dalla cultura della appartenenza tipica della provincia di Munster. Appartenere alla squadra di quella particolare porzione d’Irlanda infonde una sorta di urgenza, di bisogno di non deludere le persone che conosci, quelle che ti hanno sempre supportato e sostenuto fin dove sei arrivato, con la precisa coscienza di sapere da dove sei venuto, senza mai credere di essere arrivato.
Un concetto che per certi versi Munster ha in comune con la Nuova Zelanda: gli All Blacks parlano spesso del fatto che indossare la maglia nera significhi giocare per tutti coloro che l’hanno indossata in precedenza. Anthony Foley la maglia dei Lions non l’ha mai indossata, eppure, quando O’Mahony se la calerà addosso, non potrà non passare nei suoi sensi una reminiscenza della casacca rossa del Munster, quella che indossa da una vita, per elezione naturale. La stessa con cui indossa, da sempre, la fascia di capitano.
di Lorenzo Calamai
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