Una riflessione sulla partecipazione femminile allo sport assieme alla coordinatrice FIR del settore femminile
DUBLINO – Abbiamo avuto modo, al termine della fase a gironi della Women’s Rugby World Cup 2017, di incontrare Maria Cristina Tonna, coordinatrice FIR del settore femminile. Assieme, prendendo spunto dall’avventura delle Azzurre in Irlanda, abbiamo allargato gli orizzonti, parlando in maniera più ampia dello stato del rugby femminile in Italia, inserito nel mondo sportivo femminile e generale.
“In Italia viviamo in una situazione in cui è ancora nettamente separato quello che possono fare i maschi da quello che possono fare le femmine, idea che proviene dalla nostra tradizione e cultura. In alcune scuole italiane ci sono ancora sezioni divise per genere. Questa situazione è ampliata fuori dalle scuole dalla pubblicità che sottolinea gli stereotipi che vogliono la figura femminile relegata in certi ruoli, mamma, curatrice di bambini, uso del proprio corpo per piacere agli altri e questo livello psicologico ha delle ripercussioni importanti. Sono elementi a cui spesso non si fa attenzione, ma è una goccia cinese.”
“Noi non possiamo estrapolare la nostra attività da queste considerazioni e da quelli che sono studi ed osservazioni di tanti anni,” continua Tonna. “Tramite queste osservazioni ho visto che per esempio in altri Paesi le bambine sono abituate a lavorare per abilità e per competenze. In Italia le bambine sono ancora legate allo stereotipo che se giocano con determinati giochi definiti ‘per maschi’ (per esempio, giocare con una pistola-giocattolo) sono delle ‘maschiette’.
“Così facendo etichettiamo le bambine, ma anche i maschi che hanno una sensibilità diversa da quello che lo stereotipo vuole. Se un bambino gioca con una bambola viene identificato come ‘femminuccia’. Questi stereotipi ed il linguaggio che usiamo vanno a colpire e creano un effetto devastante e la società, per vari motivi, segue questi stereotipi.”
“Queste idee creano un fenomeno di massa ed in Italia vede il rugby, in generale, come uno sport di contatto e forse violento e c’e’ la percezione ancora, pur avendo fatto passi avanti, che è uno sport da forti, da ‘Supermen’. Per questo noi abbiamo dovuto creare un’ immagine dell’atleta donna nel rugby, dove ci sono giocatrici con la fisicità di Flavia Severin, una ragazza alta che fisicamente magari non rappresenta la ragazza “media” italiana, e Sara Barattin che ha invece un’immagine fisica che più rappresenta la ragazza “media” italiana e ci permette di mostrare che a rugby possono giocare tutti. L’alto livello, agonistico, non è per tutti, ma è per tutti i fisici. Noi ci andiamo ad incastrare in questo contesto sia socialmente che culturalmente.
“Poi c’è il problema delle strutture. Qui (Dublino, ndr) siamo in un’Università e puoi subito capire come il ruolo dello sport permea la vita dello studente, del cittadino. Fare sport ti rende una persona migliore fisicamente e psicologicamente, ti rafforza e ti dà una consapevolezza di te diversa. In Italia questo manca.”
Da donna italiana quanta fatica si fa ancora a superare lo stereotipo donna nello sport, anche se abbiamo modelli vincenti come, per esempio, Pellegrini o Beatrice “Bebe” Vio?
“Bisogna parlare di competenze e capacità non di genere, maschile o femminile che sia. Una persona che riveste un ruolo deve avere consapevolezza del ruolo che ha, deve comprendere le esigenze di tutti, maschi, femmine, normodotati, disabili, alunni, insegnanti, genitori e capire la responsabilità del proprio ruolo, dare input, incoraggiare, da qui si trae ispirazione per le nuove generazioni e questo manca in Italia, si preferisce criticare invece che incoraggiare chi vuole avvicinarsi allo sport ed anche chi ci già sta lavorando, prendendo parte. È meglio un buon consiglio che una critica che molto spesso è distruttiva invece che costruttiva.”
L’aumento esponenziale del numero di giovani e giovanissime che praticano rugby in Italia, quanto sta chiudendo il gap di genere, basato sul merito?
“Culturalmente è un modello da prendere in considerazione, anche i numeri fanno differenza. Purtroppo in Italia se si guardano i numeri sono gli uomini che praticano sport, perchè in Italia non viene incentivato, come dicevo prima, la partecipazione della donna nello sport. Tutte le atlete partono da un livello di non professionismo totale e molte devono entrare nelle Forze Armate per potersi garantire quel minimo di possibilità di continuare ad allenarsi ad alto livello. La maternità poi, per un’atleta, non è un incidente di percorso, ma una cosa meravigliosa – Silvia Gaudino ne è un esempio, lei è riuscita a tornare in forma, ma ha lavorato veramente duro. Per quanto riguarda tutto il nostro movimento, i numeri ci sono, noi speriamo di poter essere un esempio e di poter continuare a crescere ancora.”
di Matteo Mangiarotti
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