Ritrovare il rugby in un manuale per genitori. Perché nel rugby la cosa più preziosa te la tieni stretta al petto
Non esiste prima volta come la prima volta di un bambino. Spunta, emerge, esce, nasce, e non sai neanche come prenderlo. Cioè: lo sai, lo hai visto fare mille volte, a casa, all’ospedale, al cinema, altrove, dai parenti, dagli amici, da attori, da altri, ma quando quel bambino è tuo, il tuo, non è la stessa cosa, non è più la stessa cosa, e non sono gli stessi movimenti, non è la stessa intimità, che è già complicità, e da adesso in poi sarà sempre responsabilità.
Semplicemente, hai il terrore che ti scivoli via. Dalle braccia, dalle mani, dalle dita, dalle unghie. Come in un in-avanti. Imperdonabile. E allora ci vuole la presa rugby. Eventualmente anche la presa tigre sul ramo.
“Scusa, mi spieghi che cosa c’entrano il rugby e la tigre?”, gli scrissi io, incuriosita. “Sono ‘prese’ sicure per reggere il bambino, nelle posizioni più comode per lui. Nel primo caso, tieni il neonato come un giocatore di rugby con la palla ovale: con decisione, premendo il gomito contro il busto. Nel secondo, il bambino è steso a pancia in giù sull’avambraccio, come una tigre allungata su un ramo. Se conosci metodi diversi, puoi alternarli, altrimenti braccia e collo si indolenziscono”.
Il dialogo è ripreso da “I bambini più felici del mondo” di Rina Mae Acosta e Michele Hutchison (Bur, 250 pagine, 15 euro), il metodo olandese per un’educazione libera e senza ansie. Pare che l’Olanda, oltre che patria dell’Heineken Seven, sia al primo posto nella ricerca Unicef sul benessere dell’infanzia: e le due autrici, rispettivamente statunitense e inglese ma residenti nei Paesi Bassi, se ne intendono, perché sono anche due mamme.
Ritrovare il rugby in un manuale per genitori, in un libro di “parenting”, in un passaporto per la felicità (almeno al pronti-via della vita), è una sorpresa ovale, un uovo di Pasqua ma in qualsiasi altro giorno dell’anno. D’altra parte: se fosse calcio, con l’eccezione del portiere, in tutti gli altri casi sarebbe subito un’infrazione da scontare con una punizione; se fosse basket, si finirebbe con il palleggiare il neonato; e se fosse pallavolo, addirittura con lo schiacciarlo; quasi meglio se fosse pallanuoto, almeno ci sarebbe la dolcezza dell’impatto sull’acqua.
Ma il rugby – è chiaro – vale molto di più. Il pallone-bambino è custodito, protetto, difeso. E quando si cerca di guadagnare spazio, terreno, metri, il pallone-bambino è blindato al petto, come Jonah Lomu quando lo traslocava da una parte all’altra del campo, da una linea di meta all’altra del rettangolo, evitando, dribblando, sfuggendo, respingendo, ribaltando, asfaltando, arando, seppellendo gli avversari. E portando in salvo quel pallone-bambino, facendolo vivere, come si dice – in gergo – di un’azione che continua, prosegue, va avanti, fase dopo fase, in una partita lunga una vita, una partita-vita. Con il sostegno di tutti. E alla fine della partita-vita, viene passato.
Oscar Wilde non era soltanto quello che spiegava come “il rugby è una buona occasione per tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”, ma anche – lo ricordano Acosta e Hutchison a pagina 12 del loro libro – quello che sosteneva che “il modo migliore di educare i bambini è renderli felici”. Con una presa rugby, e magari poi anche con un pallone ovale, è tutto più semplice.
di Marco Pastonesi
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