Il Benetton, le sfide della Nazionale, il rapporto con l’Italia e la felicità nel veder praticare sport con i ‘suoi’ occhiali
Quando pensiamo a Ian McKinley non dovremmo pensare, perlomeno in prima battuta, al giocatore che ha perso la vista da un occhio a seguito di un terribile incidente. Ian McKinley è innanzitutto un giocatore forte, molto forte, sfortunato nel suo passato ma al tempo stesso altrettanto talentuoso da riuscire a risorgere da un infortunio così grave. Negli anni, McKinley si è certamente aggrappato alla sua incrollabile forza di volontà, alle persone importanti al suo fianco, ma soprattutto al suo rugby. È dovuto ripartire dalla Serie C, da Udine, dov’era palesemente più forte degli altri, ma lentamente la sua classe gli ha restituito una parte del maltolto: prima con Viadana e poi con il Benetton Treviso, con cui, per un notevole scherzo del destino, ha esordito proprio in casa del suo vecchio Leinster. Il resto è storia recentissima: McKinley si è guadagnato sul campo una convocazione inevitabile, perché non sono poi molti i mediani d’apertura di una certa caratura transitati per l’Italia negli ultimi tempi. Ora lo attende una nuova sfida, ovvero il test a livello internazionale, e a pochi giorni dal possibile esordio contro le Fiji On Rugby lo ha intervistato.
Ian, dopo la chiamata nella lista dei 44, sbarchi ufficialmente sul pianeta nazionale in questo novembre tanto importante. Come ti stai trovando con lo staff tecnico ed il gruppo di ragazzi?
Ho già fatto due raduni, a Parma e Treviso, e mi trovo veramente bene. Conosco i ragazzi delle Zebre perché ho fatto delle gare con loro due anni fa, e ovviamente quelli di Treviso. Siamo davvero un bel gruppo. Mi serve del tempo, invece, per conoscere meglio i componenti dello staff ed i loro metodi di lavoro, ma in generale mi sento a mio agio.
Uno dei motivi di principale interesse, in attesa delle gare, siete voi uncapped. Le aspettative sulle vostre performance (tue, di Licata e Giammarioli su tutte) sono molto alte. Pensi possiate dare sin da subito il contributo di spessore che tutta l’Italia auspica? Potreste essere la chiave per aprire la porta della continuità?
Assolutamente. Siamo pronti. Per noi tre è effettivamente la prima vera esperienza con la maglia azzurra dei grandi, e dobbiamo essere in grado di trasferire la nostra confidenza con i club anche in nazionale. Sia noi a Treviso, che le Zebre, abbiamo fatto un salto di qualità quest’anno: siamo saliti di livello per ciò che concerne il fitness e sono cresciute le nostre performance in generale, sia per qualità che per continuità di rendimento. C’è margine per fare bene, tutti abbiamo fame di giocare con la maglia azzurra, dai veterani come Sergio (Parisse, ndr) e Leo (Ghiraldini, ndr) sino ai debuttanti come noi. C’è un bel mix, tra vecchi e giovani.
Nel corso della tua carriera, hai avuto la possibilità di toccare con mano due diversi sistemi sportivi e le culture dei rispettivi paesi. In cosa Italia ed Irlanda si assomigliano?
L’Italia, in questo momento, è veramente casa mia. C’è una grande passione qui, ma è così anche in Irlanda, in questo non c’è grande differenza. Qui in Italia ci sono giocatori di alto livello, e c’è una struttura che stiamo iniziando a sfruttare tanto, con i giovani. Anche alla Benetton, con l’Accademia, si sta sviluppando qualcosa di interessante. Con i ragazzi ci vuole pazienza, ma c’è una linea guida per loro, ed è una cosa fondamentale.
Proprio nei giorni in cui la IRFU è costretta a rinunciare a Zebo, uno dei referenti massimi della nazionale verde, Sexton ha parlato di te, sostenendo come il tuo livello raggiunto negli ultimi mesi sia degno della nazionale del trifoglio. Chiaramente immaginiamo che la cosa ti faccia piacere, ma hai mai pensato di poter aspettare per una eventuale chiamata di Schmidt?
L’Italia mi ha concesso un’opportunità che nessun altro mi aveva dato, specialmente con i miei occhiali. Gli italiani sono stati i primi ad essere convinti e coinvolti sulla questione, ci hanno creduto. Devo ringraziare molto anche Viadana, le Zebre e Treviso, che mi hanno permesso giocare tra Eccellenza e PRO14. Io sono in debito con l’Italia. Per me giocare con la maglia azzurra, o anche essere solamente convocato è una delle cose della vita che più mi fa piacere. Anche perché, ormai, il Belpaese è casa mia, mi trovo benissimo qui, assieme a mia moglie. Da quando sono tornato sui campi non ho mai pensato di poter essere chiamato dall’Irlanda.
Forse in Italia non troverai una concorrenza come quella di Jono, ma Carlo Canna sta crescendo di gara in gara. Il talento non gli manca, ed ha ancora margini di crescita su alcuni aspetti del gioco. La tua esperienza sarà utilissima anche per aiutarlo ulteriormente a migliorare. Che consigli ti ha chiesto in questi giorni di ritiro?
In realtà, nel rugby, non si finisce mai di imparare e migliorare. Nonostante sia più esperto di Carlo (Canna, ndr) e Tommaso (Allan, ndr), sono io per primo che cerco di apprendere qualcosa anche da loro, ma al tempo stesso ammetto che mi fa piacere quando mi chiedono qualcosa. Con Tommaso ho un buon rapporto, ci confrontiamo anche nel club, è davvero forte, peccato per l’infortunio ma sono certo rientrerà più forte di prima. Carlo è veramente un buon giocatore. C’è una sana competizione ed è un aspetto fondamentale, perché ci permette di mantenere alto il nostro livello prestativo.
Cosa sta chiedendo a voi mediani di apertura Conor O’Shea?
Per noi numeri 10, la cosa più importante sarà mantenere sempre il controllo del match. In ogni gara dovremo capire quando è il momento di alzare ed abbassare il ritmo a seconda di quanto sta proponendo la partita. Se dovessi riassumere il tutto in tre parole utilizzerei queste: controllo, pazienza e disciplina. Sarà fondamentale metterci ed essere messi nelle condizioni di fare sempre la scelta migliore in regia, sin dalla prima gara contro le Fiji.
Ti sei prefissato un obiettivo personale particolare per questa stagione tra club ed Italia?
Non ho obiettivi personali particolari, ma voglio sempre fare il massimo possibile per la squadra, che sia club o nazionale. Cose semplici, magari, ma efficaci. A Treviso, invece, ci siamo posti l’obiettivo, ad inizio anno, di riportare entusiasmo al pubblico di Monigo. Far si che vincere al nostro stadio diventi un’impresa ardua per tutti e che la nostra gente ci sostenga come sta accadendo in questo avvio di stagione sino in primavera. Mi ricordo che anche quando giocavo in Irlanda, venir qui in trasferta per vincere non era affatto agevole.
La tua storia va oltre il rugby: del tuo percorso di “rinascita” si è parlato molto negli ultimi mesi. Dove e come hai trovato la forza di andare avanti nonostante tutto, come sei riuscito a reagire? Se oggi guardi indietro ai primi mesi dopo l’incidente, avresti mai pensato di poter raggiungere tutti i traguardi che stai brillantemente raggiungendo?
Professionalmente, l’incidente è stata la situazione più pesante della mia vita, ma sono sempre stato conscio del fatto che al mondo ci sono situazioni ben più gravi della mia. Mia moglie e tutta la mia famiglia sono stati grandi con me, il loro supporto è stato fondamentale. Sapevo di poter contare su di loro, sempre, e la cosa mi ha aiutato molto. Quando a Udine (con la Leonorso, ndr) ho deciso di tornare su un campo di rugby come giocatore non hanno esitato nemmeno un secondo ad appoggiare la mia scelta. Oggi molti genitori mi scrivono parlandomi dei propri figli che, nonostante qualche problema agli occhi, riescono lo stesso a praticare il nostro sport con i nostri occhiali, e la cosa mi rende davvero molto felice.
Matteo Viscardi
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