Il capitano delle Zebre ha attraversato tutti i livelli del rugby italiano: ci ha raccontato la sua scalata e i propositi futuri
L’albergo dove si trova la Nazionale è in una zona molto tranquilla, ai margini del centro di Firenze. Il pullman della squadra campeggia all’ingresso, mentre Matteo Minozzi cammina in cerchio, parlando al telefono, con una capigliatura a dir poco bizzarra, risultato del suo esordio. Gli Azzurri hanno incontrato ieri il pubblico fiorentino, che ha sfidato il vento, il gelo e la pioggia di una delle giornate peggiori di questo novembre per assistere all’allenamento a porte aperte al Padovani, il campo di casa dei Medicei. Nella hall dell’albergo, incontro per una chiacchierata Tommaso Castello, capitano delle Zebre e centro della Nazionale, che ha ritrovato sabato contro le Fiji dopo aver collezionato a giugno 2016 le sue prime due presenze azzurre.
Tommaso, la tua parabola sportiva ha attraversato praticamente tutti i livelli, si può dire che hai fatto la gavetta per arrivare fino a dove sei adesso. Sei cresciuto nel CUS Genova, a 20 anni il passaggio a Calvisano, poi la lenta crescita fino ad arrivare alle Zebre prima, prendendoti il posto con il tempo e poi la fascia di capitano, e adesso, dopo la under 20 e la Emergenti (di cui sei stato anche capitano) , la nazionale, con la quale hai ottenuto 3 caps, tutti sotto la gestione O’Shea. Chi o che cosa ha inciso di più nella tua crescita? Come è cambiato per te il rugby ad ogni scalino che hai salito?
Proprio ieri ho avuto l’opportunità di avere una chiacchierata con un altro giornalista e mi ha fatto la stessa domanda. Come ho detto a lui, questo percorso di 6 anni che ho fatto mi ha portato a realizzare il mio obiettivo, cioè quello di giocare con la nazionale. Un obiettivo che ho raggiunto un anno e mezzo fa, poi sono stato un anno e mezzo circa fuori e adesso ho di nuovo l’opportunità di indossare la maglia dell’Italia e spero di poter giocare il più a lungo possibile con i colori del mio paese. Spesso dico che mi sarebbe piaciuto arrivarci un po’ prima, nel senso che adesso ho 26 anni: non sono vecchio, ma neanche uno dei giovani.
Sei nel fiore degli anni.
Esattamente. Sono forse nel periodo in cui fisicamente un atleta raggiunge l’apice. Ho ancora degli anni davanti e devo cercare di migliorarmi di volta in volta per eccellere. Specialmente nel mio ruolo c’è molta concorrenza, con tanti ragazzi giovani che stanno emergendo, per cui esserci adesso è sicuramente una grande soddisfazione, la cosa più bella e più difficile sarà riuscire a rimanere in pianta stabile per un po’ di tempo.
Io ho giocato in serie B con il CUS Genova, facendo solo qualche partita prima di affrontare il Sei Nazioni Under 20 (nel 2011, ndr) e passare poi al Calvisano durante l’estate. Sicuramente c’è una grande differenza fra Serie B ed Eccellenza, ma sono riuscito ad ammortizzare bene il salto grazie alle esperienze al Sei Nazioni e al Mondiale Under 20. A Calvisano sono stato fortunato perché ho ritrovato Andrea Cavinato, che era stato l’allenatore di quella Nazionale giovanile e mi ha dato spazio da subito. Ho fatto cinque anni a Calvisano dove sono cresciuto molto, ma è dall’anno passato e da quando sono arrivato alle Zebre che ho fatto il vero salto di qualità della mia carriera, sia dal punto di vista fisico che da quello tecnico.
Quest’anno tutta l’Italia ovale è stata piacevolmente sorpresa dall’inizio stagione delle due franchigie celtiche. Tu per primo in qualità di capitano delle Zebre, ma anche O’Shea e altri, avete puntato il dito sul fitness. Si fa un gran parlare infatti del miglioramento delle capacità fisiche dei nostri giocatori: ma cosa significa fitness? Qual è il lavoro che è stato svolto e quale l’obiettivo finale?
Lo staff presta molta attenzione all’aspetto fisico. La parola fitness vuol dire tutto e non vuol dire niente. Il fitness nel rugby significa poter sprintare e fare un placcaggio in avanzamento, portare la palla avanti con decisione al primo come all’ottantesimo minuto. Per un pilone significa fare una mischia allo stesso livello di energia al primo minuto come al sessantesimo, minuto intorno al quale viene sostituito. Significa quindi mantenere un rendimento costante durante tutto l’arco della partita senza avere cali. L’arco della partita è poi diverso a seconda del ruolo ricoperto: riprendendo l’esempio del pilone, viene fatto un lavoro per far sì che si possa offrire lo stesso rendimento per i quaranta, cinquanta o sessanta minuti che quello specifico giocatore resta in campo. C’è quindi stato sicuramente, soprattutto nell’ultimo periodo, un lavoro più specifico e soprattutto individuale, differenziato a seconda dell’età e del ruolo. Quando si parla di fitness, sia in palestra che sul campo, si parla infatti di un lavoro piuttosto individuale. Io credo che nel rugby, soprattutto a questo livello, l’allenamento principale sia la partita, nel senso che è difficile e raro replicare la stessa intensità e le stesse dinamiche durante un allenamento. I nostri allenamenti sono spesso brevi ma molto intensi. Si presta molta attenzione anche al recupero, una parte fondamentale nella vita quotidiana del giocatore.
Contro le Fiji è stata partita dura dal punto di vista fisico, ne porti i segni. Quali sono le cose positive e quali invece quelle da migliorare per arrivare preparati a sabato contro l’Argentina?
La cosa migliore di sabato scorso è stata la voglia di vincere. Abbiamo preparato molto bene la partita sin da quando ci siamo trovati tre settimane fa al primo mini-raduno, e poi durante tutta la settimana passata a Catania. Non abbiamo avuto in realtà così tanto tempo per lavorare, ma in ogni caso la squadra e lo staff hanno entrambi remato nella direzione giusta sia nella preparazione della partita che nello svolgimento delle giornate di allenamento. Quindi preparazione e attitudine da parte di tutti si sono rivelate ottimali. Quando però scendi in campo le cose cambiano: quello che hai fatto prima ti aiuta, ma solo fino ad un certo punto. È per questo che è stata decisiva la voglia di vincere della squadra: volevamo vincere e ci serviva vincere, e alla fine la abbiamo portata a casa. Sicuramente abbiamo sbagliato molto, e la partita poteva finire diversamente se non avessimo fatto tanti errori in attacco. Abbiamo finito il primo tempo prendendo una meta che poteva tagliarci le gambe, riportandoci sul 10 pari. Invece poi nel secondo tempo abbiamo reagito e non abbiamo concesso neanche un punto.
Sabato, nonostante una linea arretrata a trazione Zebre, abbiamo visto la Nazionale giocare in maniera piuttosto diversa rispetto a quanto accade con il club. Quali sono le differenze di approccio fra O’Shea e Bradley? Cosa chiedono di diverso, sia a livello offensivo che difensivo?
Il motivo fondamentale per cui è diverso quello che facciamo qui in Nazionale è che alle Zebre stiamo insieme nel corso di tutto l’anno, con molto più tempo per preparare i lanci del gioco piuttosto che le strategie offensive, mentre in Nazionale devi trovare subito ciò che è efficace, senza badare troppo a sperimentare. Il gioco, secondo me, dev’essere in questo caso più pragmatico, efficace e cinico, per cui sicuramente non vedrete mai l’Italia provare a giocare dai propri 22 ogni pallone. Cercheremo piuttosto di andare in rimessa laterale e poi competere sulla conquista e difendere ottimamente, come abbiamo fatto con le Fiji. Dal punto di vista offensivo abbiamo quindi un gioco più strutturato, ma comunque alla ricerca dell’efficacia e della concretezza.
L’Argentina sta vivendo un momento difficile in termini di risultati: quella di Twickenham è stata la settima sconfitta consecutiva. È anche vero che hanno dovuto affrontare 4 delle migliori 5 squadre del ranking in queste sette occasioni (Inghilterra, NZ, Wallabies, SAF). Qual è quindi secondo te il livello dei nostri avversari di sabato? È una squadra che sta affrontando una crisi, o la sfilza di partite contro le big ne nasconde i miglioramenti?
Non credo assolutamente che l’Argentina sia una squadra in crisi. Ho visto la partita con l’Inghilterra, dove hanno sbagliato 5 calci di punizione. Con quei punti la partita sarebbe stata in discussione. Si tratta di una squadra di livello assoluto, che si confronta spesso con le migliori al mondo. Non si può parlare di crisi nonostante le sette sconfitte. Sono convinto che sarà una sfida molto dura e difficile. Li ho visti giocare e anche oggi abbiamo riguardato alcuni tagli della loro partita con l’Inghilterra, altri li rivedremo domani, e si vede che sono una squadra che sia in attacco che in difesa, in mischia e sui trequarti, ha veramente tantissima qualità. Il fatto stesso che abbiano perso sette sfide consecutive non fa che aumentare la loro voglia di riscattarsi.
La sfida fra Argentina e Inghilterra è stata molto fisica, soprattutto nei primi venti minuti.
Sì, l’Argentina è una squadra fisicamente potente, aggressiva sui punti d’incontro in particolare quando si trovano in difesa. Sono molto bravi a togliere spazio alla squadra che attacca. Sono davvero difficili da affrontare.
Secondo le statistiche OPTA del Pro14, fino a questo momento della stagione il tuo nome figura al secondo posto assoluto in due campi molto importanti: il primo è quello del numero di palloni portati avanti (106, dietro solo a Bundee Aki di Connacht) e il secondo è quello dei turnover vinti per la propria squadra (8 in compagnia di un buon numero di giocatori fra cui Carlo Canna, primo è lo Scarlet Tadhg Beirne con un impressionante 17). Pensi che questi numeri riassumano il giocatore che sei? Sono queste caratteristiche che Conor O’Shea ti chiede di riportare in nazionale?
Certo. Sono un giocatore con delle caratteristiche precise: porto la palla e sono un buon difensore. Non ho sicuramente le qualità per smistare il gioco o il piede per rimandare indietro la squadra avversaria di 50 metri, anche se sono cose su cui sto lavorando. Le mie caratteristiche sono quelle che sottolineano anche i numeri, determinate dagli anni passati nei quali mi sono costruito come giocatore. Cerco costantemente di migliorare le mie qualità, senza però tralasciare le altre, perché, in particolare per un trequarti, avere nel proprio mazzo più carte da giocare è sicuramente auspicabile rispetto ad essere un giocatore monodimensionale. Sulla linea dei trequarti credo che tutti debbano saper fare un po’ tutto. Quello che a me manca in questo momento, e che sto lavorando per migliorare, è la gestione del pallone quando si tratta di prendere una decisione lontano dalla difesa.
Lorenzo Calamai
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