A Catania il capitano azzurro ha rivestito un ruolo ancor più centrale nella creazione del gioco azzurro
Negli ultimi quindici anni il rugby internazionale non ha conosciuto molti giocatori come Sergio Parisse. Di lui si è detto spesso che sarebbe l’unico giocatore italiano a far parte idealmente di una formazione degli All Blacks, proprio a testimonianza della sua unicità nel mondo ovale e del suo smisurato talento. Capitano carismatico e trascinatore naturale dell’Italrugby, sia a parole (e non è scontato) che con i fatti, in campo Parisse ha esteso con il tempo la sua influenza a praticamente tutte le aree del gioco azzurro: touche, recuperi sui calci di rinvio, gioco aereo e naturalmente il portare avanti i palloni, che sarebbe il suo primo mestiere. Gli mancano solo i calci piazzati (ma in carriera ha tentato pure un paio di drop).
Da straordinario passatore qual è, inoltre, è sempre più frequente vederlo in posizione di apertura o comunque da playmaker occulto per sfruttare la sua visione di gioco fuori dal comune e le sue mani per offload impossibili, altro marchio di fabbrica della casa. E contro le Fiji, nel primo test match novembrino, a risaltare di Parisse è stata proprio la sua regia in fase offensiva che ha visto il 34enne smistare una quantità di palloni davvero notevole, probabilmente come non gli era mai stato chiesto in passato in Nazionale. Il numero 8, di fatto, lo ha vestito solo per convenzione.
Terza linea o secondo playmaker?
In molti forse si aspettavano un Parisse più incisivo nell’attaccare in prima persona la difesa figiana e nel guadagnare metri palla in mano, cosa che invece non è avvenuta e che forse ha posto anche sotto una luce diversa la sua partita. Il capitano azzurro e dello Stade Francais però si è preso come sempre tante responsabilità, ma in modo diverso rispetto al solito: è stato impiegato di meno in touche, ha agito meno da ball carrier (7 corse, contro le 13 di Steyn, per esempio), ma è stato molto più presente nei breakdown e soprattutto ha diretto l’orchestra azzurra per tutto il primo tempo al pari di Carlo Canna, che in genere lo fa di ruolo.
Le statistiche parlano di ben 15 passaggi completati da Parisse, soltanto cinque meno dell’apertura beneventana. Solo Rob Evans, pilone del Galles, è stato il giocatore di mischia a servire così tante volte un compagno nel weekend (13), ma con un peso specifico molto diverso rispetto a Parisse.
Avere un doppio playmaker permette alla squadra di avere praticamente sempre un creatore di gioco in piedi e pronto ad alimentare l’azione, e instilla più di un dubbio alla difesa avversaria su quale possa essere la scelta di un giocatore abile a dettare i tempi e ad accelerare il ritmo in qualunque momento.
Canna segue l’azione e, un po’ inspiegabilmente, non si riposiziona per ricevere palla. Da primo uomo in piedi c’è Parisse, che salta tre uomini con uno splendido passaggio e mette nelle condizioni migliori Steyn, bravo poi a caricare sulla spalla debole di Nakarawa
Sull’immediato proseguimento dell’azione, consapevole del fatto che Canna si ritrovi ancora dall’altro lato del campo, Parisse è ormai calato a pieno nel ruolo dell’apertura e va a schierarsi nuovamente da regista per non far perdere l’abbrivio preso dalla squadra con la carica precedente di Steyn. Una soluzione assolutamente credibile sia per i suoi compagni di squadra che per gli avversari.
Canna e Parisse hanno dunque condiviso il ruolo del playmaker, probabilmente perché O’Shea non voleva perdere la possibilità di avere più distributori di qualità in campo. La scelta più tradizionale poteva essere quella di affidare questo compito a Jayden Hayward, ma il ct irlandese ha preferito gravare di queste responsabilità il capitano.
Nonostante il fronte di gioco si fosse spostato dall’altra parte del campo, Parisse accelera per andare in prima persona a ricevere da Violi senza far rallentare il flusso dell’azione. Una soluzione che dice molto dell’importanza del capitano nelle strategie di O’Shea
I suoi tempi di gioco, poi, spesso rasentano la perfezione. Anche per questo, schierarlo a tutti gli effetti come un regista aggiunto può aiutare la manovra azzurra, altrimenti affidata al solo Canna. E il beneventano, quanto ad affidabilità e scelte sul campo, non ha ancora convinto pienamente. Difficilmente Parisse scarica la palla e anche la pressione sul ricevitore, ma è abile ad attirare su di sé le attenzioni dei difensori prima di effettuare il passaggio.
Le Fiji devono fronteggiare sia Canna che Parisse e, anche se gli spazi sono stretti, riescono comunque a farsi attirare fuori posizione. Qui Parisse attende quella frazione di secondo in più e poi scarica verso il compagno, che elude in parte il primo placcaggio.
Con il passare dei minuti, e con l’Italia sempre più intenzionata a gestire senza rischiare troppo i tanti minuti di possesso accumulati, c’è stato meno bisogno di un altro giocatore che affiancasse il mediano d’apertura prestabilito per creare scompiglio nella difesa. Nella ripresa Parisse, pur dando sfoggio di qualche altro pezzo di bravura dal repertorio, è tornato soprattutto in trincea a lottare nei punti d’incontro e a gestire la touche, ma quanto fatto nel primo tempo in particolare potrebbe aver convinto Conor O’Shea nel dare continuità a questa soluzione. Una strategia poco convenzionale, si dirà, ma del resto Sergio Parisse, in campo, ha ben poco di convenzionale per il suo ruolo.
di Daniele Pansardi
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