Dopo Italia-Argentina, cosa ci lascia il secondo Test Match: i rebus irrisolvibili degli Azzurri

La gestione dei punti d’incontro e dell’attacco ha fatto la differenza a Firenze, ma per la Nazionale non è tutto da buttare

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

Nel bene e nel male, l’Italia uscita sconfitta dal match contro l’Argentina a Firenze ha ricalcato per intero (o quasi) l’Italia vittoriosa a Catania contro le Fiji nella settimana precedente. Se contro una squadra poco consistente e ancor meno efficace come quella figiana per gli Azzurri era bastato per il successo, un avversario come i Pumas poneva l’asticella decisamente più in alto e presupponeva una maggiore qualità in quelle aree di gioco su cui pendevano tanti punti di domanda: l’armonia della fase offensiva, la battaglia nei punti d’incontro, l’impatto difensivo con i ball carrier argentini e la tenuta fisica e mentale sugli ottanta minuti, tra le altre.

In più, Conor O’Shea aveva richiesto pazienza e disciplina, sia dal punto di vista regolamentare che strategico e tattico, consapevole forse della tendenza da parte dei Pumas a diventare frenetici e fallosi quando la partita non prende i binari a loro congeniali. E i sudamericani sono anche caduti nella trappola, perché pur avendo la superiorità territoriale e nel possesso del pallone non hanno dominato la partita in tutto e per tutto ma, anzi, hanno messo in mostra gran parte del loro repertorio di infrazioni e scelte sconsiderate, con gli Azzurri che hanno infilato il coltello nella piaga dominando in mischia (tre punizioni fischiate contro al pilone Garcia Botta) e in touche.

Per vincere però non è bastato. Non poteva bastare. Non in un mondo del rugby dove le sole fasi statiche non potevano garantire un successo automatico nemmeno dieci anni fa, con regole e interpretazioni diverse. In questo senso, gli Azzurri sono rimasti indietro nel percorso evolutivo del gioco, una sorta di arretratezza sviluppatasi nel corso dei lustri e dei cicli. La partita di sabato ne è una piccola dimostrazione.

 

I limiti dell’Italia

Non è bastato mettere in un contesto sfavorevole l’Argentina, formazione ormai abituata a giocare contro avversari di livello ben più alto ma anche a perdere la bussola troppo facilmente, come dimostrato in questi mesi. L’Italia aveva apparecchiato la tavola per giocare un brutto scherzo ai Pumas ma non è riuscita ad imbandirla, venendo aggredita alla giugulare dagli ospiti al termine di una sequenza della partita molto indicativa delle debolezze azzurre, che hanno permesso all’Argentina di risalire tutto il campo nel giro di pochi minuti dopo aver sciupato un’ottima chance da maul in piena metà campo avversaria.

Come? Facendosi fischiare l’ennesimo fallo per tenuto a terra della partita, a dimostrazione della difficoltà nella pulizia dei punti d’incontro da parte dell’Italia e nel presentarsi in maniera puntuale per sostenere il portatore di palla. La difesa argentina ha aggredito sempre con ferocia, cacciando ogni pallone e dimostrando tutt’altra attitudine nella gestione del breakdown rispetto alla squadra di O’Shea, a cui si può imputare che – a differenza di quanto visto per mischia e touche – non si è ancora visto nessun tipo di concreto miglioramento in una fase di gioco ormai fondamentale per definire il proprio livello e il proprio posto in Ovalia.

Quello della pulizia in ruck è un problema annoso per l’Italrugby e in generale per le franchigie italiane. Non sembra si possa prescindere ancora dall’ingresso di una figura specifica in tal senso negli staff della Nazionale, del Benetton e delle Zebre, sprovvisti di uno specialista del settore che possa prendere in carica un compito così delicato e dalle implicazioni tecniche non così scontate. Il fitness, da solo, non può essere l’unica soluzione.

 

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

A loro volta, i punti d’incontro non sono l’unica spiegazione dell’enorme fatica nel costruire un multifase convincente da parte dell’Italia, ma solo una delle chiavi di lettura. Le occasioni per alimentare velocemente la manovra azzurra non sono mancate nel corso della partita, anche perché gli Azzurri, nonostante il 37% di possesso palla, hanno prodotto un break in più (10 a 9) rispetto agli argentini e battuto più difensori (22 a 21), completando anche il doppio degli offload (8). Ma non solo. Sempre in proporzione al dato sul possesso palla e al numero di corse completate (96 vs 148), è sorprendente anche il numero di metri corsi palla in mano dall’Italia: 382 contro i 400 dei Pumas, che però hanno avuto a disposizione il pallone per un tempo superiore.

Eppure, formulare un giudizio positivo sulla fase offensiva dell’Italrugby sembra pressoché impossibile. E lo è, difatti. Oltre a spiegare la strategia sviluppata dai Pumas nel corso della partita – pochi allargamenti, tante cariche dei ball carrier vicine alla ruck precedente per velocizzare il ritmo -, i numeri ci ricordano che spesso possono dire poco dell’andamento complessivo di un match.

L’attacco dell’Italia si è retto solo sulle iniziative personali dei singoli (due break Sarto e Castello, tre difensori battuti da Hayward e Minozzi, per citare i migliori in quest’ottica), a cui non è mai stata data continuità con strutture più organizzate e che facilitassero il prosieguo dell’azione in maniera armonica e senza rallentare il flusso di gioco. Il più delle volte, gli Azzurri scaricavano palla e pressione sul compagno più vicino senza fissare l’uomo e senza creare alcun vantaggio sostanziale all’attacco, che finiva imbragato dalle maglie della difesa argentina (che, tornando ai numeri, ha sbagliato ben 22 placcaggi).

Non si parla, ovviamente, solo dei trequarti ma di tutta la squadra e dell’intero impianto di gioco: poche le linee di corsa interessanti, troppo piatta la linea offensiva e schemi da utilizzare in prima fase partendo da mischia e touche praticamente assenti, se non per la combinazione Canna-Castello che pure ha riservato qualche spunto degno di nota. Davvero troppo poco, specie quando in PRO 14 si vedono entrambe le squadre italiane (più le Zebre del Benetton) occupare meglio il campo e disporsi in modo tale da dare meno riferimenti alla difesa avversaria. Più che un problema di individualità, insomma, sembra essere un problema collettivo, con un’orchestra che non ha a disposizione uno spartito adeguato per comparse di questo tenore.

 

 

Cosa resta di Firenze

Non è tutto da buttare, naturalmente. Come detto, la superiorità in mischia e in touche rappresenta un’ottima base di partenza per raggiungere traguardi più lontani, ma deve essere considerata soprattutto un mezzo, non il fine ultimo. La tenuta difensiva collettiva è stata soddisfacente, idem quella individuale anche se nelle collisioni spesso gli Azzurri non hanno saputo riprendere il filo del discorso una volta che l’Argentina partiva sul piede avanzante. In generale, però, la fase di non possesso si può archiviare come un altro punto da cui ripartire con fiducia, come evidenziano anche le mete subite per degli evidenti errori individuali: i placcaggi sbagliati di Hayward e Sarto sulla prima di Cancelliere e un’incomprensione su chi dovesse coprire il canale vicino al raggruppamento sulla seconda di Kremer.

La terza di Tuculet fa meno testo. I Pumas avevano ormai preso il controllo della partita e stavano effettivamente dimostrando di essere una squadra superiore all’Italia, dettaglio non troppo evidente fino alla marcatura del 15-24 che ha virtualmente chiuso la partita. Quella meta a dieci minuti dalla fine ha liberato di un grosso peso l’Argentina, la cui maggiore fiducia nel gestire il possesso ha probabilmente influito di più rispetto ad un eventuale calo dell’Italia (più mentale che fisico, ad ogni modo).

Probabilmente l’andamento della partita ha prodotto più aspettative del previsto durante il corso degli ottanta minuti, con il conseguente inasprimento delle critiche per il risultato poi maturato nel finale, ma i percorsi opposti compiuti nel recente passato da Argentina e Italia non possono essere dimenticati del tutto. Oggi i più forti sono i Pumas, mentre l’Italia (che ha a disposizione un materiale umano notevole) non potrà permettersi di frenare nel suo processo di crescita. E la prossima fermata si chiama Sudafrica.

 

Daniele Pansardi

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