Un anno fa i princìpi di gioco andavano in un’altra direzione. I numeri inquadrano un cambiamento avvenuto a metà
In un rugby sempre più complesso, dove le strategie vengono affinate maniacalmente e ogni dettaglio può fare la differenza, anche i numeri fanno la loro parte. Le statistiche applicate alla palla ovale – e allo sport in generale – possono rappresentare uno strumento di notevole importanza per comprendere a fondo l’identità di un singolo e di una squadra o analizzare un determinato campione di partite, offrendo una lettura più approfondita e analitica. Pur consapevoli che nel rugby la raccolta e la presenza di dati deve ancora fare dei passi da gigante, con il sostegno dei numeri proviamo a capire cosa è cambiato nell’Italia di Conor O’Shea in questo novembre rispetto all’anno scorso, prendendo in considerazione le partite giocate contro Sudafrica e Tonga (contro gli All Blacks il leitmotiv è stato lo stesso, ma la differenza di cilindrata era palesemente troppo ampia).
Un approccio meno conservatore
Che non sia la stessa Nazionale dell’autunno 2016 sembra piuttosto evidente, perlomeno nei princìpi e nelle scelte tattiche adottate dal CT irlandese. Un anno fa, O’Shea aveva insistito su una strategia molto conservatrice, che puntava molto sul gioco al piede per liberare la propria metà campo e su una difesa molto attenta e reattiva nel togliere spazio all’avversario in uscita dai blocchi. Di propositivo c’era poco o nulla, il che induceva necessariamente gli Azzurri ad essere cinici nel materializzare le occasioni. Sia contro gli Springboks che contro i tongani le percentuali di possesso e territorio erano rimaste molto basse: 42% e 38% contro gli africani, addirittura un doppio 34% contro gli oceanici.
I calci di spostamento erano stati rispettivamente 26 e 38, con la partita contro Tonga che in generale ha rappresentato l’apoteosi di questa strategia che non vedeva come obiettivo primario il mantenimento del possesso in maniera continuativa. Tutto questo, naturalmente, si rifletteva sulle statistiche offensive: tra le due partite in oggetto, l’Italia aveva fatto segnare una media di 89,2 passaggi, 80 corse e 221 metri corsi palla in mano (appena 132 contro i Boks); piuttosto bassi, di riflesso, i numeri sull’impatto offensivo che avevano gli Azzurri sulla difesa avversaria, con una media di 3 break puliti, 4 difensori battuti e 4 offload registrati.
Tra Catania e Firenze, invece, abbiamo potuto ammirare una Nazionale quantomeno diversa. Non necessariamente più efficace a livello realizzativo (37 i punti segnati nelle due partite in oggetto, 34 finora; una sola meta marcata finora, quattro un anno fa), ma decisamente più proattiva e desiderosa di imporre il proprio diktat senza essere troppo attendisti. I numeri restituiscono queste intenzioni da parte degli Azzurri, sebbene alla buona volontà non sia corrisposta fin qui una fase offensiva armoniosa e meno prevedibile rispetto al passato. Contro le Fiji, il possesso e il territorio hanno toccato percentuali altissime, come mai nella storia recente della Nazionale (favorite anche dall’indisciplina degli avversari): 63% e 72%. Una maggiore incisività con la palla in mano è la naturale conseguenza: 5 break puliti, 11 difensori battuti, 11 offload e 331 metri corsi palla in mano grazie a 115 corse, un dato di gran lunga superiore a quello di una squadra tipicamente estrosa e fatta di giocatori che tendono ad esaltare le proprie doti atletiche. I calci? Appena 17.
La presenza di un avversario più forte e pericoloso come l’Argentina non ha cambiato la strategia di fondo di Conor O’Shea: con la palla in mano, si punta a giocare e a cercare lo spazio piuttosto che a far pedalare indietro l’avversario. Al cospetto dei Pumas, tuttavia, l’Italia è stata dominata dal punto di vista del possesso e del territorio, con percentuali nuovamente crollate al di sotto del 40% (37 % e 33%). Nonostante questo, i numeri messi insieme dai singoli non sono affatto diminuiti ma, anzi, sono aumentati: ben 10 i break puliti, con 22 difensori battuti e 8 offload completati. I metri corsi palla in mano sono stati 382 su 96 carries, mentre i calci di spostamento sono scesi ancora (16).
Il campione è ridotto, ma i dati testimoniano un cambiamento significativo avvenuto tra un anno e l’altro che non sembra essere dettato dal caso, bensì dalla ricerca di nuove soluzioni e anche dalla presenza di giocatori più adatti ad un piano di gioco simile (Bellini, Sarto, Castello, ma anche Budd). Finora il mutamento nell’approccio alla gara si è riflettuto nelle statistiche, ma sta faticando ad andare oltre per una serie di motivi legati alle strutture di attacco e alla (poca) velocità nel far uscire il pallone da un punto d’incontro; su quest’ultimo aspetto mancano delle statistiche pubbliche, ma non si fa fatica a immaginare che la durata di una ruck italiana abbia una durata superiore rispetto al resto delle squadre affrontate annualmente. Anche a causa di questi mancati progressi, il numero dei turnover (11,5 di media nel 2016, 13,5 nel 2017) e delle punizioni concesse all’avversario (10,5 di media sia nel 2016 che nel 2017) è rimasto pressoché invariato.
Tutti i dati provengono da ESPN
Daniele Pansardi
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