Una vittoria e due sconfitte dal peso specifico molto diverso per gli Azzurri. Da cosa riparte il CT irlandese?
Prima di iniziare qualsivoglia analisi, è bene chiedersi cosa era lecito aspettarsi da una partita come Italia-Sudafrica. Ovvero dalla sfida tra una squadra con il cantiere più che mai aperto, con pregi e difetti ben riconoscibili e una magari poco convincente, ma consapevole di non poter sbagliare e di poter costruire la propria partita sulle mancanze e le difficoltà dell’avversario (punti d’incontro e attacco prevedibile), grazie a mezzi fisici e tecnici di gran lunga superiore a quelli avversari. La cospicua differenza di potenziale tra Italrugby e Springboks era nota ed evidente al momento della lettura delle formazioni e si è vista per intero sul terreno di gioco dell’Euganeo, come accade quasi sempre in uno sport poco incline a produrre risultati estemporanei (il ‘quasi‘ è riferibile all’impresa di Firenze nello scorso anno, per esempio) quale è il rugby.
Contro un Sudafrica coeso e ordinato come quello visto a Padova, quante possibilità di vittoria avrebbe potuto avere realmente questa Italia? Prossime allo zero, verrebbe da dire. Proprio l’eccessiva distanza tra le due Nazionali, insomma, ci dovrebbe far ricalibrare gli eventuali giudizi sulla partita di sabato, un passaggio obbligato previsto dal calendario ma non il parametro ideale con cui misurare i progressi e i regressi degli uomini di Conor O’Shea. Perdere il contatto con la realtà sarebbe fin troppo semplice. Quella realtà in cui gli Azzurri sono ancora lontani (e sono ancora destinati a rimanerci a lungo) dal poter impensierire con continuità squadre come gli Springboks, ma anche sufficientemente in crescita per considerarsi più vicine di un anno fa a squadre come Fiji e Argentina.
Con la Scozia ormai volata in alto, il punto di riferimento degli Azzurri devono necessariamente essere due nazionali come i Pumas e i figiani, senza dimenticare il Giappone e la Georgia con cui l’Italia si confronterà nel giugno e nel novembre 2018. In quei sei mesi avremo qualche indicazione in più sullo stato dell’arte del rugby azzurro e sull’impatto che avrà avuto il lavoro di Conor O’Shea perlomeno nel breve termine, pur consapevoli che il lavoro dell’irlandese mira ad un futuro più lontano. Per il momento, un tale dominio da parte degli Springboks sugli ottanta minuti (e le contemporanee prestazioni della Scozia contro All Blacks e Australia) può offrire soltanto uno spunto di riflessione: il prossimo Sei Nazioni potrebbe essere uno dei più duri degli ultimi anni. Nell’attesa del torneo continentale, e cercando di dare il giusto peso alle tre partite del novembre italiano, proviamo a capire quali sono le possibili certezze per O’Shea e quali le aree da migliorare nei prossimi mesi.
Le cose belle
1) Le fasi statiche funzionano
La prima linea Lovotti-Bigi-Ferrari è stata un cliente scomodo per tutti, in particolare per un’Argentina incapace di trovare le giuste contromosse alla spinta italiana. Contro il Sudafrica c’è stato qualche scricchiolio, ma nel complesso il bilancio della mischia azzurra può essere definito positivo. E dopo anni in cui anche le fasi di conquista non erano più la garanzia di successo di un tempo, ora l’Italia è tornata ad avere un pack competitivo in chiusa. Lo stesso si può dire delle touche, con Bigi affidabile al lancio e una batteria di saltatori più ampia con Budd, Parisse e talvolta Fuser e Steyn. Né l’una né l’altra, tuttavia, possono bastare.
2) Ottanta minuti allo stesso livello
La migliore tenuta atletica del Benetton Treviso e delle Zebre si è riflettuta anche sulla Nazionale, le cui prestazioni non hanno mai visto crolli improvvisi nel corso delle partite. Ci sarebbero quegli ultimi dieci minuti contro l’Argentina, in cui la partita è scivolata dalle mani degli Azzurri dal 15-17 al 15-31, ma a decidere in favore dei Pumas sono stati soprattutto gli errori tattici e tecnici dell’Italia e successivamente la maggiore confidenza dei sudamericani, non una maggiore cilindrata in sé. Mantenere sempre lo stesso ritmo in attacco e in difesa fa senz’altro parte della base che sta cotruendo O’Shea sotto l’imperativo del fitness, per evitare di ritrovarsi con il serbatoio vuoto nell’ultimo quarto di gara.
3) Meno errori tecnici
Non ci sono statistiche a confermarlo, ma spesso anche la percezione di quanto si vede in campo può essere sufficiente. Gli Azzurri hanno mostrato maggiore confidenza nel portare avanti il pallone e nel riciclarlo al compagno, commettendo meno in avanti di quanto si ricordi negli ultimi anni. La fase offensiva, nel suo complesso, rimane ancora un problema, ma nella tecnica individuale e nell’utilizzo dell’ovale da parte dei singoli i progressi paiono concreti.
4) Chi ha brillato
La copertina dei giocatori rivelazione del mese di novembre è tutta per Tommaso Castello, che sta facendo fruttare al massimo il suo repertorio non eccezionalmente vasto, fatto di cariche à la Jamie Roberts e di una grande difesa. Con le tre ottime prove disputate, il primo centro delle Zebre è stato uno dei migliori in assoluto tra gli Azzurri e uno dei pochi a rompere lo schieramento sudafricano nella complicata partita di Padova. Non è stata una sorpresa il rendimento di Simone Ferrari, mentre Luca Bigi, Braam Steyn e Mattia Bellini hanno confermato i progressi già visti nelle franchigie fin qui. C’è poi la consapevolezza di aver trovato in Giovanni Licata un potenziale grande giocatore per il futuro e di aver allargato la base con McKinley, Giammarioli, Hayward e Minozzi.
Le cose brutte
1) Attacco a vuoto
La meta di Ferrari contro le Fiji nel primo Test Match è rimasta l’unica dell’intero mese. Inutile sottolineare quanto sia scarno e dannoso questo dato, perché si guarderebbe al dito e non alla luna. Quello degli Azzurri non è soltanto un problema di finalizzazione, bensì innanzitutto un atavico problema nella costruzione di un multifase convincente e più imprevedibile per le difese avversarie, che invece hanno vita facile nell’adattarsi all’attacco italiano. L’assenza di profondità nello schieramento offensivo è lampante, i giocatori si appiattiscono troppo spesso su un’unica linea rendendo difficile e farraginosa la circolazione della palla.
Le lunghe sequenze di possesso sterile contro il Sudafrica sono lì a dimostarlo; alla difesa Springboks è bastato svolgere il compito in classe con applicazione, favorito anche dalle scelte di metterla sul piano delle collisione da parte dell’Italia, probabilmente anche a causa delle condizioni meteo. Dai set pieces, oltretutto in ottimo stato di forma, non è mai stato provato uno schema (se non lanciare Castello sulla linea) che cercasse di sfruttare gli spazi, magari coinvolgendo delle ali dal talento offensivo notevole come Bellini, Sarto e Esposito.
2) I punti d’incontro
Che poi sono strettamente collegati al punto 1, perché la lentezza con cui vengono ripulite le ruck inficia buona parte dell’attacco. Dall’altra parte, invece, la difficoltà nel rallentare il ritmo avversario rende fin troppo esposta la difesa, che di riflesso deve alzare il proprio ritmo e eseguire dei placcaggi ancor più efficaci per far indietreggiare l’avversario. (Anche) Con questo si spiega la supremazia Springboks, ben esemplificata dalla prima meta di Louw, arrivata dopo tante fasi in cui gli Azzurri non erano mai stati in grado di mettere una pezza sporcando le ruck, né tantomeno contenendo la loro debordante fisicità. In un rugby che fa della competenza sui punti d’incontro una delle maggiori discriminanti, l’Italia si ritrova indietro e poco preparata.
3) Le scelte di gioco
Una questione che esula in parte dalla fase offensiva di squadra, e che abbraccia un altro punto critico come la lettura delle situazioni da parte del singolo e le decisioni da prendere in brevi frazioni di secondo con la palla in mano. Perché se il contesto non riesce ad esaltare i singoli giocatori, è anche vero che gli Azzurri spesso hanno fatto ben poco per creare delle situazioni più favorevoli; in diverse occasioni il pallone è stato scaricato troppo frettolosamente, senza fissare l’uomo e creare dei dubbi all’avversario, oppure la distribuzione è avvenuta troppi metri dietro alla linea del vantaggio. Anche da questi accorgimenti dovrà passare il futuro dell’Italia.
4) Gioco tattico
Jayden Hayward aveva cominciato con il piede giusto la sua avventura in maglia azzurra con una prova solida contro le Fiji, ma il neozelandese non ha cofnermato le buone impressioni nelle uscite successive. Alla grande attenzione nella copertura del campo non è corrisposta un uguale precisione nell’esecuzione dei calci di liberazione, che hanno seguito una parabola discendente nel corso del mese. Nemmeno Carlo Canna e Marcello Violi sono stati di grande aiuto nel fondamentale (se non a sprazzi), dettaglio che non ha permesso all’Italia di avere maggiore controllo del territorio soprattutto contro Argentina e nel primo tempo della sfida al Sudafrica.
Daniele Pansardi
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