Questione di dettagli: la crescita personale e del movimento Italia, intervista con Mattia Bellini

Uno sguardo al presente e uno al futuro con l’ala delle Zebre, sempre titolare in azzurro nel mese di novembre

ph. Luca Sighinolfi

ph. Luca Sighinolfi

Per anni il movimento italiano ha fatto non poca fatica nel produrre delle ali di spessore internazionale, adattando spesso centri o estremi in un ruolo forse sottovalutato per specializzazione e qualità specifiche. Di recente, tuttavia, qualcosa è cambiato, e la crescita dei vari Venditti, Esposito, Sarto, Sperandio e non ultimo Mattia Bellini, diventato punto fermo delle Zebre Rugby e al momento anche dell’Italrugby, è lì a dimostrarlo. L’ala ex Petrarca sembra destinato ad essere uno dei protagonisti del processo di rinnovamento intrapreso con l’arrivo di Conor O’Shea in Nazionale e di Michael Bradley in franchigia, viste le sue qualità importanti con la palla in mano. Lo abbiamo intervistato per fare il punto sul mese appena trascorso e sul prossimo futuro.

 

Iniziamo con un bilancio personale di questo novembre. Non giocavi con l’Italia dal marzo 2016, com’è stato il tuo impatto contro avversari di livello internazionale?

Sono molto contento di essere rientrato in nazionale. Nel 2016/2017 ero stato una settimana (prima dell’ultima contro la Scozia al Sei Nazioni, nda). Ho avuto quest’opportunità di giocare, anche se i risultati non sono stati dei migliori a parte le Fiji. Si sperava in un’altra vittoria. A livello internazionale ci avevo già giocato, devo dire che il Sudafrica fisicamente mi ha impressionato. Ho giocato contro tutte quelle del Sei Nazioni, Fiji e Argentina sono buone squadre ma il Sudafrica sicuramente di più.

 

 

Fino ad inizio novembre avevi giocato in Nazionale solo da giocatore dell’Eccellenza, una situazione molto particolare. Ora che sei ritornato in squadra da giocatore delle Zebre, quant’è la differenza rispetto al test rugby?

È un gioco diverso, poi secondo me il livello si è alzato tanto nel PRO 14, si vede anche dai risultati che danno le squadre come Leinster, Munster e Scarlets. Quando ho esordito dall’Eccellenza la differenza si è sentita, adesso che questo è il mio secondo anno in PRO 14 sicuramente di meno. È un passaggio obbligatorio secondo me.

 

Per la Nazionale è stato un tour difficile, con luci e ombre. Come gruppo cosa vi portate da questo mese?

Sicuramente il gruppo è motlo bello, siamo legati tra di noi. Siamo cresciuti insieme con alcuni, anche in Under 20. Da questo novembre ci portiamo la vittoria contro le Fiji, che adesso è passata un po’ in sordina ma si tratta di una partita vinta bene, non spettacolare però è stata vinta in maniera molto intelligente. Non era facile. Loro pensavano di darci 60 punti, dopo la partita mi hanno detto che si aspettavano molto di più. Poi sicuramente la voglia di migliorarsi, perché in attacco personalmente non sono contento perché abbiam segnato poco, siamo stati poco efficaci, più che in difesa, anche dati alla mano. Contro il Sudafrica abbiamo avuto il 60% di possesso e 64% di territorio, son dati importanti e non arrivano a caso. Un segnale c’è.  Contro l’Argentina mi è dispiacuto molto non portare a casa la vittoria. Ci sono stati errori tecnici, son dettagli.

 

Cosa fa ancora la differenza?

Tanti piccoli dettagli, non c’è più un gap straordinario. Questo è il mio parere, poi posso avere torto.

 

L’impressione è che in Nazionale vi stiate concentrando sul mettere le basi, quindi sistemare difesa, fasi statiche e migliorare la tenuta fisica.

Sì certo, anche Conor ha detto che è un progetto che sul lungo termine guarda al Mondiale, ma va avanti ancora, ma non è una cosa che si vede dal giorno al notte.

 

C’è qualcosa che ti ha sorpreso in particolare di Conor O’Shea e dello staff?

È totalmente diverso da quando c’era Brunel. Conor è più sull’esterno, mentre sono più Mike (Catt, nda) e Gus (Goosen, nda) che danno direttive. C’è un bell’equilibrio nello staff, è diverso rispetto alle Zebre dove Mike (Bradley, nda) entra in campo e gestisce l’allenamento. Conor delega di più gli assistenti.

 

In Italia non siamo molto abituati a lavorare sul lungo termine, ma l’obiettivo di O’Shea è proprio quello di portare tutto il movimento ad un livello più alto negli anni a venire. È un approccio sicuramente diverso e forse è quello che serviva.

Ha fatte tante cose positive per il movimento, non solo alle Zebre dove ha portato Mike. Ha introdotto Pete, che è una persona molto competente. Sta aiutando a crescere il movimento. Le cose che magari vedete noi, probabilmente voi dall’esterno non le vedete nell’ambiente in questi giorni.

 

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

A volte suona anche un po’ strano questo continuo essere ottimisti da parte di Conor O’Shea e Sergio Parisse nelle conferenze stampa e nelle interviste.

Da un lato sì, può sembrare un po’ strano. Anche io ho voglia di vincere e dimostrare che in questo momento siamo cresciuti per dare un segnale ancora più forte, però è anche vero che tutti noi notiamo la differenza che c’è nel gruppo.

 

Capitolo Zebre: con voi Bradley sembra aver toccato le corde giuste e sta cercando di mettervi nelle condizioni migliori possibili per farvi giocare un rugby anche bello da vedere. Qual è stato il suo approccio in un’estate davvero difficile?

Anche Ale (Troncon) e Carlo (Orlandi) sono le persone giuste al momento giuste. Mike ha vissuto gli anni in cui stava fallendo il Connacht e riuscì a tirare su un bel gruppo. Non c’era più quando ha vinto il campionato, però è un percorso che è partito da lui. Quando è arrivato a giugno, c’era gente che continuava ad andare via: van Schalkwyk, Koegelenberg, Padovani… Eravamo in un momento disastroso. Ci aveva abbandonato anche Roland De Marigny, Bradley è stato bravo perché è riuscito a prendere per mano un gruppo che aveva passato un anno travagliato. Ci ha trasmesso fiducia e noi lo abbiamo seguito ovviamente, perché ci ha dato sicurezza.

 

Bradley ha ripetuto anche nell’ultima conferenza stampa post-Munster un concetto molto chiaro: secondo lui, il vostro processo di crescita sarà in buona parte completato quando sarà completato il lavoro sulla tecnica individuale. In che cosa consiste praticamente?

Facciamo riscaldamento con offload, sulla tecnica di placcaggio, sulla tecnica di pulizia. Possono essere 5-10 minuti, oggi (ieri, ndr) per esempio abbiamo avuto pulizie dei punti d’incontro veloci. Sono questi piccoli dettagli che per lo staff sono importanti.

 

Con questo tipo di lavoro hai scoperto di avere qualche mancanza che magari ti portavi dietro da tempo?

So di non essere il placcatore che fa il placcaggio in avanzamento che fa saltare lo stadio, questa è l’area in cui mi sto più concentrando. Gioco al piede? Lo dite un po’ tutti voi giornalisti. Non ho un piede malaccio, poi da ala o da centro lo uso poco. Poi alle Zebre il 9 e il 10 già calciano poco, figurati le ali.

 

Hai 23 anni, devi ancora raggiungere l’apice probabilmente come giocatore. Su cosa dovrai lavorare secondo te in questi anni.

Dovrei sicuramente migliorare la mia lettura di gioco e la velocità, però voglio puntare di più sulle letture, perché secondo me fa la differenza a questo livello.

 

Con quella meta con il Petrarca, all’esordio in Eccellenza contro Rovigo, hai cominciato a pensare che saresti arrivato a questo livello?

Lì era già un sogno esordire con la prima squadra del Petrarca, al Plebiscito contro Rovigo. Una giornata che porto ancora dentro, perché è stata indimenticabile. C’era la tribuna piena, la ricorderò per sempre.

 

E la prima chiamata in Nazionale?

Quando sono stato convocato per il Sei Nazioni 2016, invece, mi ricordo che c’erano stati raduni a Parma e a Treviso, poi ci dovevano essere state le convocazioni e avevo scommesso una cena di pesce con dei miei amici in un ristorante abbastanza importante. Per fortuna ho perso! All’inizio avevo dubbi, pensavo fosse un salto troppo grosso, ma alla fine mi son trovato bene.

 

Il tuo esordio era arrivato in Francia-Italia, una partita particolare anche perché era la prima partita giocata da una nazionale francese dopo gli attentati a Parigi del novembre precedente, al Bataclan. Cosa ti ricordi dell’attesa di quel match?

Sì, era il primo evento dopo i fatti. Ne parlavo con Renato Giammarioli venerdì sera, che poi doveva esordire il giorno dopo. Mi diceva che forse non riusciva a dormire, era agitato e riguardava le touche. Gli ho detto: “Guarda, la notte prima dell’esordio ero in stanza con Michi Campagnaro, avrò dormito tre ore, andavo in bagno ogni mezzora e non mangiavo niente”. Questo è il ricordo della notte, poi il giorno è stato bellissimo: lo Stade de France tutto pieno, erano venuti i miei genitori da Padova… È stata una giornata indimenticabile, se avessimo vinto (finì 23-21 per la Francia, nda) sarebbe stato ancora più bello. È stata comunque una grande soddisfazione.

 

Daniele Pansardi

 

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