Sul tavolo i temi più spinosi del movimento, dalla formazione all’Eccellenza. L’allenatore del Viadana propone le sue idee
Premessa: l’intervista è stata realizzata nel mese di settembre, come seconda parte della chiacchierata fatta con Filippo Frati sul Viadana e sull’allora imminente inizio del campionato di Eccellenza (che trovate qui). In quest’occasione, con l’allenatore nocetano erano stati toccati temi più ampi che abbracciavano l’intero movimento rugbistico italiano, le sue magagne e i problemi atavici come la formazione di giocatori e tecnici, il dialogo tra vertice e base e naturalmente la stessa Eccellenza. Nonostante siano passati un paio di mesi, abbiamo scelto di riportare fedelmente la conversazione originale tenuta con Frati, senza togliere i riferimenti all’attualità di fine settembre che, per esempio, vedevano il caso Padovani al centro dei dibattiti ovali. Buona lettura.
“Conosco bene Edoardo e appena ho saputo la notizia gli ho scritto per complimentarmi. Sono rimasto invece di stucco per la vicenda, che doveva essere affrontata in modo diverso: personalmente, sarei stato orgoglioso che un giocatore delle nostre Accademie potesse avere l’opportunità di giocare a Tolone. Non un qualcosa da impedire, ma qualcosa di cui vantarsi. Come è un orgoglio avere un Michele Campagnaro campione d’Inghilterra e Sergio Parisse capitano dello Stade Francais campione di Francia nel 2014/2015”.
Nell’ex Sky Box dello Zaffanella ora adibito a suo ufficio, Filippo Frati inizia subito dalla stretta attualità. “È un tema di non secondaria importanza per la crescita dei nostri ragazzi – prosegue a proposito del caso che ha acceso l’estate ovale italiana – Non possiamo pensare di essere più bravi di Federazioni che sono più avanti di noi, per tradizione, strutture, competenze e budget, nella formazione dei giocatori. La FIR dovrebbe incentivare questi trasferimenti, anche per un semplice motivo: la nostra Nazionale più forte aveva tanti giocatori in Francia e Inghilterra. Non dico questo non per sminuire le nostre capacità tecniche, ma dobbiamo imparare e superare i limiti oggettivi che abbiamo rispetto ai nostri competitors”.
Si parla poi dei molti italiani all’estero, rientrati nella Penisola dopo l’ingresso nell’allora Celtic League. “Uno degli obiettivi era proprio questo, far rientrare i giocatori. Ma il risultato, posso dirlo senza timore di essere smentito, non è stato quello sperato, né con le franchigie né con la Nazionale”. Numeri e classifiche alla mano, i migliori anni stati i primi: l’exploit del 2013, con Treviso settimo nel torneo e l’Italia quarta nel Sei Nazioni: “Il miglior allenatore dell’Italia nell’epoca moderna è stato Franco Smith – dice scherzando Frati – Ma Treviso era arrivata a giocare la Celtic con un gruppo di giocatori e uno staff che da tempo lavorava in questa ottica. E quella Nazionale ha raccolto l’enorme lavoro che Smith e Munari hanno portato avanti”.
Confronto, condivisione e viaggi all’estero per i tecnici italiani
C’è poi la questione movimento dei tecnici, altro nodo cruciale della formazione dei nostri allenatori. “La FIR dovrebbe incentivarci per andare all’estero. Philippe Doussy lavorava per la didattica FIR e allenava le skills e il gioco al piede per l’Italia e le Accademie: quando gli si aprì la possibilità di andare ai Southern Kings, in Sudafrica, la federazione gli impose un aut aut: ora, dopo essere passato per Edimburgo e Grenoble in Top 14, collabora con la Federazione francese a Marcoussis, ritengo che con Philippe si sia persa una grande opportunità. Noi allenatori dobbiamo e vogliamo confrontarci con un rugby diverso: confronto e condivisione sono alla base della crescita di ogni professione”.
L’estero permette inoltre di “capire cosa significa avere alle spalle una società forte, con determinate competenze e strutture importanti”. Chiudiamo il capitolo dialogo collegandolo proprio alla lungimiranza tecnica che manca alle nostre latitudini: “Le Zebre lo scorso hanno messo sotto contratto Engelbrecht nel momento in cui Lucchese è andato a fare il barista e Semenzato giocava a Calvisano. Deve farci riflettere tutti per quanto riguarda la pianificazione del lavoro. «Och, pasienza e bus del cul», diceva Sacchi: qua è mancato l’occhio, la lungimiranza”.
Le Accademie e le franchigie
Poco occhio c’è stato anche nello spostare la Francescato a Remedello? “Il collegamento franchigia-Accademia sembrava fatto, con le Zebre a Parma e l’Accademia di Mogliano a Treviso, con Ongaro e Bortolami nello staff. Scelte eccellenti. Poi però il trasferimento a Remedello ha fatto cadere quel collegamento e il modus operandi che a Parma vi era stato nelle ultime 2-3 stagioni, ora probabilmente lavoreranno insieme al Calvisano ma non è la stessa cosa”.
Un argomento tira l’altro: come integrare le Accademie nel sistema delle franchigie? “Come si fa all’estero, non dobbiamo inventarci nulla: creare un’Accademia ad hoc legata alla franchigia, individuare una decina/dodici/quindici, non necessariamente 30, giocatori che la prima parte di settimana si allenano a Parma e Treviso, mentre nella seconda – se non sono in lista gara – si allenano con un club di Eccellenza con cui poi scendono in campo per la partita. Una soluzione che guarda al bene del movimento e del giocatore”. Sarai mai possibile mettersi tutti d’accordo? “Intanto finché non se ne parla non si raggiungerà mai la soluzione. Un sistema simile permetterebbe ai club di risparmiare, perché puoi allestire una rosa di 32-33 giocatori e non 36-37. Fondamentale sarebbe mettere tutto ma proprio tutto nero su bianco: che giocatore è collegato a quale club, in che ruolo può essere impiegato…”. Un’utopia? “Mettere l’ego in tasca, diceva O’Shea, per il bene di tutto il movimento. Sicuramente è un processo culturale, che magari poco appartiene a noi italiani e al nostro modo di fare le cose. C’è un bellissimo detto Maori: “Pianta alberi che non vedrai mai crescere”. Questa è lungimiranza, questo significa mettersi l’ego in tasca, ma in Italia non siamo conosciamo il significato di medio/lungo periodo, siamo il paese del tutto e subito…”.
Un’Eccellenza che non è tale
Parlando di Eccellenza, citiamo un campionato che sopravvive con infinite difficoltà più fuori che dentro il campo, tra complessità legate al valore commerciale e scarsa visibilità. “Iniziando dal nome: «Eccellenza» ti rimanda subito alla quinta categoria calcistica, è un nome privo di appeal. Il poco successo del nostro campionato è anche legato alla doppia franchigia, esperienza che come dicevo ha dato scarsi risultati. E sotto i club soffrono e fanno fatica. La Nazionale è chiaramente il traino di tutto il movimento, ma non possiamo agganciarle solo due franchigie, è un treno troppo corto e su cui salgono pochi passeggeri”. La soluzione guarda al Giappone e all’Argentina: “Allestire una sola franchigia su cui concentrare i migliori giocatori e con pochi e mirati stranieri, di vera qualità. Dove? In Veneto, a Treviso, perché ci sono know how e sponsor reali. Il contatto con lo staff della Nazionale sarebbe strettissimo e portare avanti gli stessi principi e sistemi di gioco sarebbe quasi automatico”.
E che farne delle risorse liberate? “Reinvestirle nell’Eccellenza, aumentando il contributo ai club. Ma con una garanzia: che le società li usino per garantire staff full time con almeno un capo allenatore, un assistente, un video analyst e un team manager. Uno staff forte permette ai giocatori di crescere più velocemente, avvicinandoli alle esigenze dell’Alto Livello”.
Il dialogo tra vertice e base dovrebbe estendersi anche ad altre aree di lavoro. “I giocatori della Nazionale e delle franchigie fanno gli stessi test in preparazione: perché non estenderli a tutti? Magari scopriamo che un’ala di San Donà o un pilone di Rovigo ha numeri interessanti. Ci sono giocatori magari non sotto i radar, sfuggiti ala rete delle Accademie, oppure esplosi tardi a 24-25 anni. È anche un modo per non farli sentire esclusi a priori, anche perché siamo nella condizione di non poter permetterci di perdere nessuno. Servirebbe un maggior controllo da questo punto di vista”.
La Nuova Zelanda come ispirazione
Manco a dirlo, i maestri di questi processi sono neozelandesi. Nell’ufficio di Filippo Frati si respira quel rugby, a partire dalla scritta “No dickheads” (Co….ni non ammessi) che campeggia in alto sulla lavagna, prima di schemi, programma settimanale e principi di gioco. “Là tutti parlano la stessa lingua e l’intero movimento lavora bene. Il gioco che gli All Blacks propongono è portato avanti da tutte le cinque franchigie, non ci sono segreti tra nessuno: poi logico che ognuno lo adatta, ma la guardia 1-2-3 (rock-guard-dog) si chiama ovunque nello stesso modo e i princìpi non cambiano”.
Dalla biblioteca personale alle spalle apre una serie di manuali tecnici dall’Under 6 all’Under 16 destinato ai coaches neozelandesi: lo stesso esercizio è proposto dai 6 fino ai 16 anni, arricchendolo per ogni step di complessità, incognite e nuovi obiettivi. “Questo significa parlare tutti la stessa lingua. Non si perde nessun giocatore e nessun giocatore si perde niente. A 16 anni c’è un bagaglio tecnico acquisito e condiviso. È un modo per garantire proposte adeguate alle capacità motorie e cognitive dei ragazzi e pemettere loro una crescita che segue un processo preciso ed efficace”.
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