Il terza linea è uno dei giocatori simbolo del rugby italiano. Abbiamo parlato della sua lunga parabola nell’ultimo anno
Il repentino calo della temperatura a Roma ha preso di sorpresa Simone Favaro, colpito da una leggera influenza in questi giorni. Nella città capitolina, il terza linea di Zero Branco ha trovato la sua nuova casa nella caserma ‘Stefano Gelsomini’ di Ponte Galeria, dove ha sposato una causa ben più grande delle sole Fiamme Oro e dell’Eccellenza. La storia è nota: dopo l’esperienza a Glasgow, il 29enne è arrivato da esterno nella squadra del presidente Armando Forgione, ma parteciperà al prossimo concorso previsto per l’arruolamento nella Polizia di Stato. Una scelta che va oltre il rugby, dopo un periodo – sportivamente parlando – davvero difficile. “È un nuovo capitolo della mia vita, che porterò avanti fino alla fine dei miei giorni, finché invecchio. Anche perché prima o poi tutti dovranno uscire da quel campo di rugby, non si potrà restare sempre dentro – mi spiega Favaro – L’ambiente? L’ho trovato accogliente. La decisione di dormire da subito in caserma ha aiutato tantissimo, perché sono a contatto con i ragazzi ogni giorno, quasi per 24 ore. Stiamo tutti insieme, ci son tanti ragazzi giovani e maturi, sanno già come si vive”.
Dal 2010 al 2017: il ritorno in Eccellenza
Favaro non giocava in Eccellenza da quando aveva 22 anni, nel 2010. Ha ritrovato questo campionato sette anni dopo, da giocatore maturo e formato in tutto e per tutto. “Il mio ricordo di allora? All’epoca avevo 22 anni e ora gioco con quelli di 22 anni (ride, ndr). È stato un anno magico, era l’ultimo in Eccellenza e l’ho fatto a Parma. Mi son ritrovato a far capire chi era Simone. Era un campionato di buon livello, con tanti stranieri molto buoni, l’ho vissuto come un trampolino di lancio perché nell’anno dopo ci si spostava nelle franchigie e io volevo esserci (ci riuscirà, andrà ai defunti Aironi, ndr)”.
“Lo ritrovo con tanti giovani, è di buon livello anche questo, ma viene penalizzato dalla filosofia di gioco – prosegue – Bisognerebbe giocare molto di più, questo è dovuto ad un mix di fattori come la preparazione del giocatore, l’allenatore e l’arbitro. Se prima cominciavo a scrivere il mio futuro, ora attraverso gli altri ragazzi giovani posso vedere quello dell’Italia”. Come Giovanni Licata, esordiente in Nazionale a novembre: “Per lui arriva la sua sfida più grossa: confermarsi per dieci anni”
È pensiero comune che i giocatori provenienti dal Pro12/14, proprio perché abituati ad un livello più alto, debbano riuscire a subito calarsi negli standard più bassi del torneo italiano. Sulla questione dell’adattamento, Favaro non la pensa così. “È stato difficilissimo. Lo sapevo già da subito. Non sembra, ma ti trovi catapultato in un gioco diverso rispetto a quello del Pro12, dove trovi sempre la pagnotta pronta e l’età dei giocatori è più alta. Qua giochi con tanti giovani e devi affrontare un rugby diverso, perché l’obiettivo dell’Eccellenza è essere il trampolino di lancio per i ragazzi. Le cose date per scontate nel Pro12 non sono così scontate a livello di gioco in Eccellenza. Mi sto ancora adattando, non mi sento ancora il Favaro che ha dato il 100% in una partita in questo campionato. Mi auguro di farlo al più presto”.
Non si sente una guida per i più giovani, anzi, non vuole nemmeno esserlo. “Non lo sono, vorrei essere un esempio. Sono subito disponibile con i miei compagni per portare quell’esperienza che ho avuto nella mia carriera. Voglio essere esemplare nel mio lavoro nei confronti dei giocatori che vogliono aspirare ad un futuro migliore. Non mi sento una guida, perchè una guida va seguita, e io mi sento sullo stesso piano di tutti gli altri”.
Con i Barbarians
“È stata una delle più belle sorprese della mia vita. In primis, perché fino a un mese fa il mio più grande rimpianto era quello di non aver vestito la maglietta dei Barbarians. Infatti quando mi è arrivata la prima mail mi son chiesto se stavano parlando con la persona giusta. Avendo abbandonato l’alto livello per entrare in un campionato minore, non me lo sarei mai aspettato”. Quando affrontiamo l’argomento Barbarians, la voce di Simone Favaro sale comprensibilmente di tono. Entrare a far parte della selezione a inviti bianconera non è un privilegio per tutti, come non lo è nemmeno vivere la settimana che precede una partita (lui ha giocato contro Tonga).
“Da vivere è stupendo, perché al di là di tutte le goliardie che ci sono attorno, impari a vivere l’essenza del rugby. Ti trovi gente di 30 anni e ti chiedono di fare la stessa cosa che facevi in Under 10 e in Under 12: divertirsi. La settimana è strutturata per quello, e le prestazioni che abbiamo fatto dimostrano quanto sia importante divertirsi insieme. Se prendi degli sconosciuti e li metti insieme porti tante qualità individuali, ma il divertimento unisce tutti e fa sì che produca bel rugby”.
Gli chiedo quali sono stati i compagni più simpatici. “Non ti nascondo che a detta anche dello staff, abbiamo creato una simbiosi impressionante, già dopo la prima sera. Se devo citare due su tutti dico il seconda linea (Geoff) Parling e (Andy) Ellis, che è stato il nostro capitano. Giocatori di grande esperienza, maturità e competenza anche fuori dal campo, ma allo stesso tempo quando c’era da mettersi a fare i ragazzini non erano in seconda fila”.
In un momento particolare della sua carriera, in cui “per una scelta sportiva e anche per altri motivi” Favaro si era defilato dall’alto livello, la chiamata dei Barbarians è stata un importante riconoscimento. “Si sono ricordati di me. Proprio l’allenatore (Robbie Deans, ndr) mi ha detto che aveva letto la mia storia, si ricordava delle partite passate. Aveva un posto libero e ha scelto me perché voleva vedermi giocare. È stato bello, perché è un riconoscimento di livello mondiale; non a livello nazionale, non della Scozia. Sarò sempre grato a loro”.
Il ritorno in Nazionale
Proprio le convocazioni con World XV e Barbarians, allo stesso tempo, hanno fatto riflettere tanti appassionati sul motivo per cui Favaro non sia stato chiamato in Nazionale per novembre. Qualche chiacchierata con Conor O’Shea c’è stata (“Sono andato a Padova a salutare i vecchi compagni di squadra e lo staff perché avevamo la settimana libera. Mi è capitato di parlare con Conor, ma solo prettamente del rugby e del Sudafrica. Abbiam sorriso assieme di quello che volevo io da tifoso contro gli Springboks”), ma non sul futuro.
Le idee del terza linea, in ogni caso, sono ben chiare. “Davanti ad una chiamata dell’Italia non direi mai di no. Ho accettato il fatto di non essere stato stato convocato, perché aprendo gli occhi per la Federazione sono un giocatore di serie B. A 29 anni gioco in Eccellenza, quindi è comprensibile che la Nazionale debba essere aperta a chi si confronta con partite di più alto livello. Se tornerò in Nazionale sarà perché mi chiamerà l’allenatore, altrimenti sarò sempre un tifoso dell’Italia”.
Continuando con il discorso azzurro, sulla possibilità che O’Shea possa considerare un giocatore dell’Eccellenza per le convocazioni, Favaro è ancora più diretto: “Se me lo merito vado, se non me lo merito non vado. Ho maggiore serenità nell’accettare una non chiamata dal punto di vista sportivo, e di questo devo ringraziare la Polizia di Stato, perchè davanti a me ho un grandissimo orizzonte che sarà il rugby fino a quando il dottor Forgione lo vorrà. Poi vorrò diventare un grande poliziotto”.
Quando sai com’è l’abisso…
Il capitolo Glasgow porta con sé un insieme di emozioni contrastanti. Al termine del primo anno era stato votato dai tifosi come miglior giocatore della stagione, ma a marzo 2017 arriva la notizia del mancato rinnovo del contratto biennale firmato nel 2015. Gli chiedo se si attendeva una scelta del genere. “È stata una sorpresa, ma io pensavo proprio il contrario. Vedevo che cominciavano a comunicare ai ragazzi chi doveva andare via e chi restava. Anzi, io avevo già pianificato una futura vita in Scozia con il futuro contratto. Ho aspettato il mio club, nonostante ce ne fossero altri interessati, visto che dopo lo scorso novembre c’è stata grande attenzione verso di me. Quando è arrivata la decisione di Glasgow era tardi, ma l’ho capita“.
La maglia dei Warriors è rimasta comunque marchiata a fuoco sulla pelle di Favaro (“non voglio screditare le Fiamme, però con Glasgow ho i migliori ricordi di rugby”), ma da quell’annuncio un po’ tardivo sono nati i problemi seguenti nel trovare una sistemazione. “Questo ha destabilizzato la mia posizione di mercato all’interno del grande rugby. Quello che mi sono sempre detto, e che è anche la mia forza, è vivere il rugby con divertimento e con determinati obiettivi. Io volevo qualcosa di più dalla palla ovale, ma quando ti avvisano così tardi è difficile riuscire a fare qualcosa di importante. I grandi club sono i primi a sottoscrivere i contratti con i giocatori”.
“Non me l’aspettavo minimamente – continua – è stato uno dei periodi più duri della mia carriera. Al mio procuratore estero dell’epoca dicevo che ero interessato a quel rugby, ma i club che mi avevano contattato si erano già mossi. Io per coerenza volevo stare a Glasgow. Invece mi son ritrovato a pensare «e mo’ che faccio?», per dirtelo alla romana. È stata veramente dura. Non te lo nascondo, è stata una delusione”.
Nemmeno il club a cui Favaro ha legato un’altra parte importante della sua crescita, il Benetton Treviso, ha potuto fare nulla: “Non aveva bisogno di me, perché Antonio (Pavanello, ds del Benetton, ndr) mi disse che il budget era già impiegato e che erano pieni di terze linee. Ed era casa mia”.
…non sei più lo stesso
“Ora mi ritrovo qui, e tanti mi chiedono «ma come fai a stare in caserma?». Ringrazio ogni santo giorno per la scelta che ho fatto, la più giusta della mia vita. Non ti nascondo che quando chiesi al presidente Forgione questa possibilità, durante il nostro primo incontro, mi sentivo già coinvolto. E lui dentro di sé sapeva già che sarei venuto. È stato un uomo di parola. Ero passato dalla partita contro il Sudafrica (fu votato Man of the Match, ndr), a capitanare la mia Nazionale, ad essere in mezzo al nulla. E a non avere dopo tanti anni di sacrificio quello che volevo”.
Per Favaro è stata una sorta di rinascita. “Sicuro, sicuro. Inizio a vedere la mia carriera come poliziotto, e intanto ho lo stesso spirito di quando ero un ragazzino dell’Under 15/16/17, quando iniziavo a sentire che potevo giocare a rugby in futuro e a informarmi su cosa volesse dire essere un grande giocatore di rugby. Questo lo sto facendo adesso in Polizia, aiutato dai miei compagni, ma anche in mensa a parlare con le persone che vivono qua e mi spiegano le varie situazioni. È aria pulita”.
Permit player e le differenze tra Scozia e Italia
Le porte di Benetton Treviso e Zebre non sono chiuse, nemmeno per la stagione in corso, perché gli chiedo se prenderebbe in considerazione la possibilità di giocare da permit player. “Sembra che io sia contro il rugby italiano così. Non vedo perché dovrei escludere questa cosa. Sono un giocatore di rugby alla fine, è ovvio che voglio giocare al più alto livello possibile. Ora però voglio anche dare un maggiore riguardo alla squadra in cui sono. Bisogna dare un senso a queste situazioni, perché sennò si fa tutto a caso. Credo che ad avere la priorità debbano essere i giovani comunque, però non direi ma di no, ma che scherzi? Vivo ancora di competizione”.
Anche su quanto imparato in Scozia i dubbi sono pochi (“Ho avuto la fortuna di essere stato allenato da uno dei futuri manager più forti mondo, Gregor Townsend”), e nemmeno su quello che ha capito vivendo in quel Paese. “C’è un gap che l’Italia dovrà colmare. La progettualità lì è stata maniacale, soprattutto nel nostro club. C’era competizione non solo tra i giocatori, ma anche tra manager, dirigenti e staff. Tutti puntavano a crescere e a migliorarsi. Questa è una cosa che fa la differenza. Poi ti potrei raccontare tante piccole sottigliezze, ma se te la devo racchiudere in breve è così. L’Italia deve creare un sistema meritocratico, dove vincono i risultati, e i risultati devono essere ottenuti attraverso una competizione pulita che passa tra giocatori, allenatori, dirigenti, manager e i presidenti”.
Se nasci tondo, non muori quadrato (ovvio!)
L’ultima domanda è forse la più scontata, conoscendo il personaggio. Gli chiedo se il suo stile, molto riconoscibile per la sua aggressività e per come interpreta le partite, può accorciargli la carriera ad alti livelli. L’essenza di Simone Favaro è tutta nelle prossime due risposte. “Direi proprio di sì, che domanda è? Ovvio! Nel rugby come nella vita puoi decidere due cose: vivere al 100% ogni giorno, ogni settimana, o pianificarti il futuro della vita. Io non sono un pianificatore. Assolutamente. Non ne ho le doti”.
In realtà, quella domanda banale era propedeutica ad un’altra, ovvero se ha intenzione di rivedere questo stile per cercare di prolungare i suoi anni di agonismo. Manco a dirlo, non è nei suoi programmi. “Per me è un gioco, ho scelto di diventare rugbista in base alle mie qualità e anche alla mia personalità. Il rugby è tutta la vita. Hai 80′ per tirare fuori te stesso, io ho scelto di essere così. Non vorrei mai essere messo in discussione per l’attitudine che metto dentro al campo. Questa è la mia filosofia di rugby. Una grande carriera può durare dieci anni, quindici per i grandi fenomeni come Sergio (Parisse, ndr). È il mio gioco, l’ho iniziato in un certo modo e così lo voglio lasciare”.
Salutandolo, gli faccio gli auguri di pronta guarigione. La reazione non poteva essere più favaresca. “Sì sì, domani sarò più forte di prima”.
Daniele Pansardi
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