Intervista al trequarti delle Zebre, con cui abbiamo parlato anche della sua vita da studente universitario
Se a fine stagione il Pro14 decidesse di assegnare il premio di ‘Most Improved Player’, prendendo spunto dalla NBA, Giulio Bisegni sarebbe uno dei candidati alla vittoria. Dopo tre annate discrete, ma senza davvero impressionare, il frascatano è una delle Zebre che più di tutte ha tratto giovamento dal lavoro di Michael Bradley. Il coach irlandese ha sciolto le catene al talento del centro ex Lazio, che sta mettendo in mostra tutte le sue ottime doti atletiche in fase offensiva e sta confermando quanto di buono già fatto vedere in difesa in passato. Conor O’Shea non ha potuto ignorarlo per il primo raduno in vista del Sei Nazioni 2018, ma la vita di Bisegni non è solo rugby, come ci ha raccontato in questa intervista.
Non possiamo non partire dal ritorno in Nazionale: probabilmente te lo aspettavi, viste le tue prestazioni.
È stata una conseguenza. Per come è stato impostato il lavoro alle Zebre, è stata una conseguenza. Ho fatto tanti minuti sia da centro che da ala. Non sono ancora nel gruppo ristretto, ma è comunque una soddisfazione.
Cosa pensi di portare in più a Conor O’Shea e alla Nazionale rispetto alla scorsa stagione?
Lo scorso anno è stato un adattamento giocare da ala. Ero meno confidente, ero meno propenso e disinvolto in campo. In questa stagione, avendo lavorato con i tecnici e avendo studiato il ruolo, sono riuscito a portare un po’ più di brio in entrambi i ruoli. Sono più consapevole del fatto che da centro posso spostarmi nelle zone esterne, a seconda delle necessità. Alla fine è stata una cosa positiva anche per la mia crescita da giocatore.
Lo scorso anno ti vedevamo come un ottimo difensore e un centro che attaccava soltanto per linee dirette, ma spesso mancavi anche di efficacia. In questa stagione invece sei uno degli attaccanti più pericolosi delle Zebre. Cosa è cambiato?
Sono cambiamenti che si inseriscono all’interno del percorso tecnico di crescita della franchigia, in cui ci siamo inseriti. Con Gianluca (Guidi, ndr) c’era un gioco più conservativo, eravamo più prestanti in mischia e in drive. Si cercava di partire di più dalle fasi statiche e avere una buona difesa e una buona fase di recupero. Ora cerchiamo di avere il possesso e di creare situazioni di pericolo. Negli altri anni ho avuto una crescita dal punto di vista prettamente difensivo e organizzativo, da questa stagione riesco a toccare anche più palloni e sono cresciuto anche in attacco e nell’intesa con i compagni. Va detto che sta funzionando bene tutto il reparto.
Non sappiamo se guardate le statistiche tra voi giocatori, ma comunque nel Pro14 sei settimo per break realizzati: ne hai fatti 15 in dodici partite. L’anno scorso in campionato furono 5 in 14 presenze. Rivedi la tua crescita in questi numeri?
Sì. Bisogna sempe considerare l’impostazione tecnica e tattica e anche la predisposizione del giocatore. Spesso quando un allenatore ti chiede qualche cosa, e tu devi essere giudicato per quella cosa lì, giustamente ti senti anche più frenato. In questo devo ammettere che c’è stato un passo in avanti nell’attacco, negli inserimenti, nella comunicazione, cose su cui stiamo lavorando nello specifico. Mi ci rivedo abbastanza effettivamente.
Si parla tanto del vostro attacco, molto vario e a tratti molto bello da vedere. Spesso però mancano quegli spunti decisivi per realizzare, per esempio nei derby contro il Benetton. È una questione di movimenti collettivi non perfetti oppure di competenze individuali che mancano?
Credo che sia una questione collettiva. Nei derby si è mostrata in forma diversa, anche perché sono state partite un po’ più chiuse. Per cercare di dimostrare di più, magari contro il diretto avversario con cui ci si gioca la maglia azzurra, si cerca di metterla di più sul fisico e resti chiuso. Treviso è stato più conservativo ma più cinico, cosa che è mancata a noi nei due derby.
La difesa ha alternato delle buone prestazioni, come nella partita contro Connacht, ad altre più negative come l’ultima contro i Warriors. In generale sembrano esserci ancora alcuni problemi in questa fase, che per come viene organizzata sembra molto dispendiosa fisicamente.
Siucramente noi cerchiamo di essere degli attaccanti in difesa. Portiamo pressione, cercando di chiudere subito i canali e di forzare l’errore per gli avversari in modo da riavere subito la palla. Dobbiamo crescere. Con Glagsow è vero che abbiamo sei mete, ma una è venuta da una meta di punizione e due da drive, per cui di fatto non c’è stato uno squilibrio tra lancio da prima fase e gioco generale, dove in realtà abbiamo difeso abbastanza bene. Dobbiamo ancora migliorare dalle piattaforme di gioco, cercare di temporeggiare invece di forzare alcune situazioni.
In generale, siete rimasti sorpresi dall’approccio di Bradley e dello staff?
Sì, siamo rimasti sorpresi. Eravamo immersi in un clima dove la società era ormai fallita e non c’erano più speranze. Nessuno si aspettava niente dal punto di vista organizzativo né tra gli atleti né tra lo staff. Invece poi è arrivata una figura come lui, accompagnata da Carlo (Orlandi), Alessandro (Troncon) e i vari preparatori… Hanno fatto un lavoro di puro entusiasmo, perché pure questo va detto. Non è stata una cosa dettata dalle necessità, però nel momento in cui avevamo toccato il fondo abbiamo ritrovato la voglia di giocare anche se avevamo una rosa ridotta e piccole defezioni, che si fanno sentire come macigni in queste situazioni. Invece è nato questo gioco che ci dà entusiasmo, abbiamo lavorato sul fitness e creato un nostro stile. Una cosa che comunque ha creato appartenenza e partecipazione, come un lavoro nato dal nulla e che poi senti tuo.
Hai parlato dello stile riconoscibile dello Zebre. È la cosa che mancava negli anni scorsi, quando vi adattavate di più all’avversario?
Sì, ora piuttosto cerchiamo di noi imporre il nostro gioco. Abbiamo affrontato gli avversari senza mai cambiarlo, anche contro Glasgow primo in classifica. Abbiamo sempre cercato di mantenere la nostra mentalità. Crea quell’ambiente in cui i giocatori si riconoscono e si sentono parte di un progetto, soprattutto a fronte dei problemi che c’erano stati all’inizio dell’anno.
L’impressione poi è che siete un gruppo molto affiatato. Come si riflette questo dentro e fuori dal campo e come vi aiuta a superare le difficoltà?
È un gruppo veramente fantastico e non è una dichiarazione di facciata, che sembra quasi scontata. Spesso in realtà non lo è, perché non è detto che se condividi il 90% del tempo con una persona, poi di fatto diventi ci entri in sintonia. Invece qui siamo tutti molto giovani a parte tre-quattro senatori, c’è grande disponibilità da parte di tutti, stiamo sempre insieme e sia in campo che fuori questo si vede. Tutti vogliamo migliorarci, ci spingiamo a vicenda nel fare un extra in più. Anche il gruppo si sta rivelando fondamentale.
Quali sono le aree di gioco in cui credi di dover migliorare per raggiungere la maturità rugbistica?
Come centro mi sento più performante e tranquillo, invece da ala, anche se ormai lo sento un ruolo mio, devo migliorare nell’aspetto tattico del gioco e con il piede, per cercare di essere un giocatore che sa gestire meglio anche la partita.
Che metodo utilizzano i vostri tecnici? Vi guidano verso un’interpretazione oppure vi danno delle indicazioni da applicare?
Entrambi. Sono bravi a rispettare il giocatore, perché ognuno ha delle predilezioni. Per esmepio, a Carlo (Canna) piace attaccare la linea ed è inutile stargli a dire più di tanto di distribuire in determinate fasi di gioco. A me magari piace cercare linee di corsa, tagliare… Ogni giocatore predilige qualcosa nell’affrontare l’aspetto tattico della partita. Loro si adattano e ci danno dei consigli, ma ci fanno ragionare anche tramite domande nelle riunioni collettive e individuali che facciamo. Spiegano, chiedono, ci coinvolgono nel progetto.
Tu sei anche iscritto all’Università degli Studi di Parma, alla facoltà di ingegneria gestionale: come si concilia lo sport con una vita da rugbista professionista?
Non è semplice. Dopo che a novembre c’era stata la mancata convocazione, ho spinto sull’università. Questo parallelismo tra le due cose mi ha anche aiutato, perché magari ci si focalizza troppo sull’aspetto rugbistico. Non che non sia giusto, ma quando c’è una delusione invece di buttarmi giù mi creo questo sfogo mentale, che non è solo questo però. Mi aiuta come persona ma lo farà anche nel dopo carriera, a cui uno comunque tende a pensare poco. Giocare in una franchigia e fare qualche cap in Nazionale non ti consente di avere un bottino tale da vivere per tutta la vita senza far niente. Considero anche l’ipotesi di portare avanti qualche progetto personale, che sia magari anche solo un corso da allenatore o, se a uno piace la cucina farne uno di cucina… Qualcosa comunque che crei uno sfogo, perché penso sia necessario per noi come persone.
Daniele Pansardi
Cari Lettori,
OnRugby, da oltre 10 anni, Vi offre gratuitamente un’informazione puntuale e quotidiana sul mondo della palla ovale. Il nostro lavoro ha un costo che viene ripagato dalla pubblicità, in particolare quella personalizzata.
Quando Vi viene proposta l’informativa sul rilascio di cookie o tecnologie simili, Vi chiediamo di sostenerci dando il Vostro consenso.