I Verdi continuano a demolire gli Azzurri ad ogni confronto diretto. E la squadra di O’Shea ci mette del suo
Rispetto a un anno fa non è poi cambiato molto. Il Festival di Sanremo è stato vinto da una canzone che forse dimenticheremo nel giro di qualche mese, l’Inghilterra ha superato il Galles a fatica e l’Italia è stata travolta dalla marea verde. Eravamo persino in attesa di capire meglio cosa pensare di Scozia e Francia, proprio come all’inizio dello scorso Sei Nazioni.
Questi scherzi da calendario hanno fatto sì che il sabato appena trascorso fosse perfettamente sovrapponibile a quello del 10 febbraio 2017, sia nei risultati sia nelle sensazioni restituite dagli eventi: una kermesse musicale insipida, eccezion fatta per qualche lampo (non per forza canoro), degli inglesi duri a morire, il senso di incertezza attorno a scozzesi e francesi e la consueta impotenza azzurra di fronte all’Irlanda di Joe Schmidt. Se avete un dejà vu, almeno ne conoscete i motivi.
Melodramma azzurro
Ascoltare gli stessi ritornelli a distanza di un anno non depone certamente a favore di gruppo e staff tecnico, tanto più se già nella scorsa settimana i problemi di approccio alla partita e attitudine difensiva erano stati esplorati a fondo dall’Inghilterra. Nella conferenza stampa della vigilia, Parisse aveva spiegato che la squadra si era resa conto di come fosse fondamentale “avere un approccio più positivo nel primo quarto di gara”, al fine di “non concedere punti facili nei primi 20 minuti, restando così a contatto”.
Non saranno stati esattamente “punti facili” (quelli arriveranno soprattutto in seguito), ma a causa delle tre mete iniziali allo scoccare del 21′ gli Azzurri viaggiavano già alla media di un punto subito al minuto. Da ‘presagi negativi’ a ‘incubo’ il salto rischiava di essere piuttosto breve. La reazione d’altronde stentava ad arrivare e si sarebbe concretizzata nel suo piccolo soltanto nella ripresa, quando gli irlandesi sono entrati in modalità risparmio energetico riuscendo comunque a marcare altre quattro mete, a dimostrazione dell’enorme controllo esercitato anche nei migliori momenti dell’Italia nel secondo tempo.
Non appena l’Irlanda ha azionato le rotative, dopo qualche minuto di oliatura, la partita degli Azzurri ha assunto toni sempre più melodrammatici in tutte le aree del gioco: i palloni persi in attacco, l’errore in ricezione di Steyn su una touche nei 22 avversari e incertezze difensive di ogni tipo hanno spianato la strada ad una squadra che non aveva certamente bisogno di facilitazioni, visto il ben noto divario tra le due nazionali.
L’Italia, pur consapevole di partire già battuta, aveva il compito di rendere meno evidente il gap tra la terza e la 14esima del ranking mondiale, controllando al meglio gli aspetti del gioco su cui gli Azzurri avrebbero potuto avere un’influenza tangibile. La debacle nasce proprio da lì: ancora una volta, nessuno si sarebbe aspettato una vittoria, ma quantomeno la capacità di restare ad una distanza dignitosa, senza affondare fin da subito. Come nelle ultime sfide contro l’Irlanda, è accaduto l’esatto contrario.
Fitness mentale, ma non solo
Analizzare le differenze tra Irlanda e Italia soltanto dal punto di vista della preparazione e della prestanza fisica forse sarebbe sufficiente, ma escluderebbe dal discorso un’altra parte su cui Conor O’Shea si è soffermato nel post partita. Il CT ha parlato anche di “fitness mentale”, riferendosi alle abilità nel compiere le scelte giuste in brevi frazioni di secondo e all’interpretazioni delle situazioni di gioco (ma anche alla già citata capacità di reagire ai diretti degli avversari).
In questo, l’Italia si è dimostrata ancora una volta carente, con lacune non indifferenti nella lettura degli attacchi irlandesi a livello sia individuale sia collettivo. Come ha puntualizzato O’Shea in seguito, è una qualità non semplice da migliorare in allenamento, ma che può essere migliorata di partita in partita riguardando gli errori commessi. Quel che è certo, tuttavia, è che al momento gli Azzurri sono una preda facile per una squadra come quella di Joe Schmidt, potente con il pack e fenomenale nel manipolare le difese altrui con i tanti schemi confezionati dal CT neozelandese. Un esempio? La meta pressoché certa evitata dall’arbitro Poite nel secondo tempo, quando le linee di corsa dei giocatori all’esterno avevano attirato gli Azzurri nella trappola, lasciando un considerevole buco all’interno coperto però dal direttore di gara francese.
L’Irlanda, insomma, ha continuamente proposto irrisolvibili rebus, sfruttando a pieno tutte le debolezze italiane e inserendosi in ogni pertugio lasciato libero dalle scalate errate del reparto. I Verdi si sono confermati la nazionale più scomoda e indifendibile per Parisse e soci, anche più dell’Inghilterra, nonostante l’impianto tattico sia conosciuto da anni (anche il Leinster di Schmidt adottava strategie pressoché simili) e venga ‘solo’ perfezionato di volta in volta con gli ingressi nella rosa di giocatori nuovi e tecnicamente più dotati. Intanto, mentre O’Shea e Goosen cercano risposte agli enigmi difensivi, il dato dei punti subiti per mano degli Irish nell’era Schmidt (arrivato a fine 201) sale a 245, con una perfetta media di 49 a partita. Il verde, perlomeno per gli Azzurri, non è sinonimo di speranza.
Daniele Pansardi
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