Dopo le sconfitte azzurre è necessario ripartire sempre da lontano. Intanto, la difesa è un motivo di preoccupazione
Quando si cerca di analizzare tecnicamente e tatticamente una partita tra l’attuale Italia e una qualsiasi consorella del Sei Nazioni, è sempre utile tenere a mente una serie di elementi oggettivi che contribuiscono a definire meglio il contesto, evitando di perdere troppa lucidità. Premesse tanto lunghe e inflazionate quanto doverose, che hanno lo scopo di iscrivere in una cornice tutti i pezzi della storia necessari alla costruzione del puzzle.
In un ideale manuale di preparazione ad una conversazione su questa Italrugby, il primo assunto dovrebbe sottolineare l’abisso esistente tra gli Azzurri e Inghilterra e Irlanda, tanto per restare sulla stretta attualità, ma anche Francia, Galles e Scozia. Non crearsi false aspettative, insomma. Con quest’inizio, di conseguenza, ognuno di noi dovrebbe inserire una prima appendice, per ritornare indietro nel passato e ripercorrere mentalmente tutti gli ultimi diciotto anni di rugby italiano.
Dal trionfale ingresso nel Sei Nazioni, ben presto si è arrivati al mesto declino dell’ultimo lustro, caratterizzato da gestioni tecniche, manageriali e organizzative poco professionistiche e adeguate al livello raggiunto con i risultati degli anni novanta. Convinti di aver compiuto la missione raggiungendo la cima più alta del rugby per grandezza e fonte d’approvvigionamento, l’Italia ha sottovalutato le difficoltà nel mantenere quello status di prestigio garantitogli dal Sei Nazioni finendo per specchiarsi nei successi precedenti, senza accorgersi di assumere con il passare del tempo un aspetto grottesco e quasi caricaturale agli occhi degli osservatori esteri.
Mentre le grandi di Ovalia compievano dieci passi in avanti, dunque, l’Italia ne compieva altrettanti all’indietro, scavando il solco del presente e di una parte ancora indefinita di futuro, che rendono difficile fare previsioni sui piani di crescita italiani.
Riempito a sufficienza il fegato di bile, è possibile passare al secondo assunto del nostro manuale, quello che dovrebbe controbilanciare l’eventuale frustrazione nel vedere l’Italia subire 102 punti in due giornate di Sei Nazioni: riporre fiducia in Conor O’Shea per un destino meno buio e più disteso. L’irlandese sembra essersi calato a fondo nella realtà italiana comprendendo pregi e difetti del movimento, ma allo stesso tempo puntualizzando come siano necessari diversi anni per poter vedere i frutti del suo progetto. Alle condizioni attuali, del resto, non esistono altre strade, fermo restando che tutto ciò non deve essere un ombrello sotto cui ripararsi da ogni intemperia e meta avversaria.
Predicare all’esterno pazienza in un ambiente come quello dell’Italia ovale, tuttavia, è ormai diventato davvero complicato, così come accettare il fatto che ogni partita contro una Home Nations o la Francia debba essere vista soprattutto in prospettiva, dato l’eccessivo divario rispetto agli Azzurri e l’inevitabile sconfitta alle porte. Se al suo interno, il gruppo ritiene comunque che i miglioramenti stiano emergendo, alla prova del campo la rosa azzurra finora ha dovuto fare i conti con problemi rimasti ancora irrisolti all’Acqua Acetosa.
Conscio di ciò, anche per questo Conor O’Shea insiste sul ‘proteggere’ i suoi ragazzi chiedendo loro di concentrarsi unicamente sulla prestazione, per cercare di rendere meno visibile quel gap tra le altre potenze e la più debole Italia. Come? Eseguendo al massimo delle proprie possibilità quanto previsto dal piano di gioco sia in attacco sia in difesa, con efficacia, precisione e un impatto adeguato, pur consapevoli che la partita potrebbe presto o tardi sfuggire dalle proprie mani per fattori che esulano dalle competenze azzurre, ovvero la maggiore forza dell’avversario.
Misurate queste componenti, è possibile passare anche ad un’analisi più dettagliata di quanto espresso dagli Azzurri contro squadre come l’Irlanda, per l’appunto.
Cosa non ha funzionato a Dublino
Diversamente dal primo tempo giocato a Roma, all’Aviva Stadium l’Italia ha avuto grandi difficoltà nel mantenere e gestire il possesso, sia per demeriti suoi sia per meriti altrui. Se prendiamo in considerazione il solo primo tempo (o quasi) è perché è il periodo in cui da un punto di vista atletico e della resistenza i valori sono livellati anche se le squadre in campo sono Irlanda e Italia.
Non sapremo mai come sarebbe stato il punteggio all’intervallo se gli Azzurri avessero avuto maggiore lucidità in attacco o una difesa più attenta e meno individuale, ma probabilmente i Verdi avrebbero dovuto spremersi più a fondo per trovare una via d’uscita dopo alcuni errori di trasmissione iniziali anche da parte loro. L’Italia, tuttavia, ha risposto colpo su colpo anche alle imprecisioni altrui, fin dal terzo minuto di gioco con questo passaggio di Boni, tanto bravo a farsi trovare nella giusta posizione sulla seconda linea d’attacco quanto impreciso nell’allargare verso Parisse. Anche il capitano incapperà più tardi in una leggerezza inammissibile, aprendo la strada ai Verdi per il recupero e l’azione da meta.
Gli Azzurri non dovrebbero permettersi certi errori,
soprattutto dopo i rari turnover gratuiti irlandesi come successo poco prima.
La fase offensiva dei primi 40′ è stata caratterizzata da altri banali incidenti (un brutto controllo di Budd, la touche ricevuta male da Steyn, i soliti sostegni in ritardo), ma è stata soprattutto la difesa a lanciare segnali piuttosto preoccupanti, sia per singole interpretazioni sia per movimenti di squadra. All’Italia, poi, sembra mancare anche un coordinatore della difesa in campo, ovvero qualcuno che sappia prendere in mano le redini della linea nei momenti più catartici, un po’ come fa Owen Farrell con la sua Inghilterra (senza scomodare troppo le straordinarie doti del centro inglese in questo senso).
La poca comunicazione fa il paio con la poca velocità – fisica e di pensiero – dei primi cinque uomini (ma non solo) nel risistemarsi in difesa, venuta a galla ad esempio nella seconda meta segnata da Murray, splendidamente costruita dai Verdi ma anche agevolata dalle disattenzioni italiane.
Tutto nasce dal brutto passaggio di Parisse verso Allan a cui accennavamo prima, su cui l’Irlanda arriva prima rispetto agli Azzurri. Quando Rory Best alza il pallone da terra per la prima volta verso Dan Leavy, quest’ultimo ha già quattro uomini a disposizione per aggredire l’Italia sul lato corto, situazione che porta quattro Azzurri a collassare verso l’esterno per chiudere il buco, lasciando lo spazio a Kearney per rientrare.
Due fasi dopo, i Verdi tornano ad insistere sull’out sinistro e si ritrovano in netta superiorità numerica, nonostante gli italiani avessero avuto il tempo per leggere la situazione ed effettuare i dovuti scivolamenti. Al resto ci pensa la grande bravura irlandese.
L’Italia, inoltre, non disdegna di utilizzare la difesa rovesciata per chiudere i corridoi laterali agli attaccanti, salendo velocemente con un uomo all’esterno per disinnescare le giocate più profonde dell’attacco avversario. In alcuni frangenti il meccanismo ha funzionato anche con discreti risultati, ma in altre occasioni ad una buona lettura ha corrisposto un brutto intervento individuale. E mancare certi placcaggi, come quello qui sotto di Benvenuti, è proprio l’opposto del controllo richiesto da Conor O’Shea.
Negli errori ‘fuori controllo’, infine, rientra anche un’altra categoria, ovvero quella delle letture individuali. Come detto, gli Azzurri escono spesso dai blocchi per anticipare le intenzioni dell’attacco quando quest’ultimo sposta il pallone al largo, ma non sempre questo tipo di atteggiamento difensivo proattivo è permesso dalle tante situazioni di gara che si vengono a creare.
Una scelta rivedibile di Boni, per esempio, ha agevolato la quarta meta del bonus di Earls al 35′, quando il centro bianconero ha affrettato troppo la salita all’esterno per bloccare le linee di passaggio a Aki, senza accorgersi di avere al suo interno un prima linea, Bigi, che mai avrebbe potuto tenere il passo di un trequarti sull’accelerazione.
Ma certi dettagli, come ha sottolineato Conor O’Shea, si imparano soltanto giocando (e sbagliando). E chiariscono il notevole lavoro che attende lui e i giocatori nei prossimi mesi.
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